domenica 26 ottobre 2014

ABBANDONO SCOLASTICO.UN DRAMMA ITALIANO


Fuoriclasse
L’Italia in fuga dai banchi di scuola
Manuela Messina 
Non solo lasciare la scuola, ma anche frequentarla senza interesse, noia, scarso investimento. Il fallimento formativo– in Italia ha raggiunto quota 17,6 per cento – può avere molte cause. Variabili diverse – il territorio, il contesto socio-economico, una famiglia fragile, un ambiente scolastico ostile, modelli sociali accattivanti e poco educativi, mancanza di autostima dei ragazzi, discriminazione- producono unico risultato: la scuola non è più vista come uno strumento realizzare il proprio progetto di vita. Quindi si sceglie la via più facile: la rinuncia.  
“LA SCUOLA È TARATA SUI DIRITTI DEI GRANDI, NON SU QUELLI DEI BAMBINI”

Dirigente «coraggio», anche se non ama che lo definiscano così, Paolo Battimiello, dirigente dell’istituto comprensivo Virgilio quattro di Scampia, a Napoli, si confronta con una media di abbandono scolastico nel quartiere che supera quote del 20 per cento. Una emorragia di studenti che lasciano prematuramente gli studi, in un quartiere caratterizzato da condizioni socio economiche precarie. Secondo un report pubblicato sul sito dell’istituto, dal nome “La scuola a singhiozzo”, nel rione dell’ottava municipalità del capoluogo campano, le famiglie con più di cinque figli sono il 25,9 per cento e il tasso di disoccupazione a quota record del 61,7 per cento.  
A Scampia ci sono quote di abbandono scolastico preoccupanti.  
Lo stop alla scuola che individuiamo nel passaggio dalle scuole medie alle superiori ha radici molto profonde, nell’assenteismo scolastico della scuola primaria. Qui i ragazzi fanno numerose assenze saltuarie, dovute a problemi di gestione quotidiana delle loro famiglie. Spesso aiutano i fratelli più piccoli quando la mamma non c’è, o pagano le bollette quando non può farlo nessun altro. Poi, molti di loro hanno uno (o entrambi) i genitori in carcere. Sono famiglie in cui non ci sono libri, in cui non si discute e la povertà e l’emarginazione sono il primo ostacolo che i ragazzi devono affrontare. Per loro la scuola non è un mezzo di realizzazione dei propri progetti di vita.  
Il quartiere di per sé è molto difficile.  
Gli studenti qui vivono un quotidiano diverso da quello di altri ragazzi. Scampia è un posto complicato in cui vivere. C’è tanta povertà, degrado. Il telefonino, le scarpe nuove però non mancano: questi giovani vogliono sentirsi uguali agli altri. Gli insegnanti provano a proporre modelli educativi, ma c’è il problema delle assenze durante l’anno, a cui si aggiunge la lunghissima pausa scolastica. I ragazzi qui d’estate stanno per strada, non sugli yacht o nei musei e per un docente è come tessere la tela di Penelope.  
Le famiglie si fidano della scuola?
Si fidano, ma spesso è la scuola ad abbandonare questi ragazzi a loro stessi. Alcuni di loro hanno delle disabilità, ma mancano risorse umane competenti. Ci sono docenti che si ritrovano a fare lezione a un bambino autistico: sono persone di buona volontà, ma di autismo non sanno nulla. Quando una madre sola mi affida un bambino disabile, io mi sento in colpa, perché non so a chi affidarlo a mia volta. E per me, e per la scuola in generale, è un fallimento.
La criminalità sfrutta questa situazione?  
Il primo problema di questi ragazzi è il quotidiano da risolvere. E qui intervengono le organizzazioni criminali, che sfruttano il fatto che, abbandonando la scuola, i giovani non acquisiscono gli strumenti per smarcarsi.  
Le donne sono svantaggiate?  
Scampia è il quartiere maschilista per eccellenza: le donne hanno imparato subito ad assumersi responsabilità molto più grandi di quelle delle giovani della loro età. Alcune ragazzine sognano di sposarsi a 13-14 anni. 
Però a Scampia ci sono tante associazioni che fanno progetti per il quartiere.  
Come mettere le toppe senza che nessuno faccia il vestito di Arlecchino. Noi come scuola arginiamo questo tsunami umano. Sulle azioni F3 (prototipi di azioni educative in aree di grave esclusione sociale e culturale, ndr): uno strumento fantastico, ma poi chi controlla che venga realizzato quello che è stato progettato su carta? 
La scuola offre occasioni di esclusione?  
C’è e rimane un modello di scuola dove l’insegnante spiega contenuti e i ragazzi apprendono passivamente. Non c’è formazione, controllo, valutazione dei docenti. Se si legge il profilo educativo ideale dello studente sul sito del ministero, alla fine del primo ciclo questi dovrebbe avere un grande spirito critico, sapere dialogare, parlare, discutere, e l’insegnante dovrebbe lavorare in modo da potere incrementare queste capacità. Ciò nei fatti non avviene assolutamente.  
Crede che il precariato dei docenti sia un danno per la scuola?  
Di scuola si parla sempre e solo in termini sindacali, segno che invece di essere tarata sui diritti dei bambini, spesso tiene conto solo dei diritti dei grandi, seppur legittimi. Spesso sono i docenti stessi a porsi a ostacoli del cambiamento: non è possibile mantenere un rapporto di fiducia, fondamentale nell’educazione, quando un ragazzo vede quattro supplenti in un ciclo scolastico, perché gli insegnanti chiedono il trasferimento.  
Lei cosa chiede allo Stato?  
Io voglio la sperimentazione dell’autonomia scolastica. Vera, non quella promessa dalla legge 275/99 che è solo un’arma a salve. Scampia ha bisogno di più cose rispetto alle scuole del centro: io chiedo tutor one to one, psicologi, logopedisti. Ogni anno invece vedo la cronaca di una morte civile annunciata. Non è cambiato molto dal 1967, quando Don Milani e i ragazzi della scuola di Barbiana pubblicarono “Lettera a una professoressa”. La scuola esclude, è di tutti ma non per tutti. Continua a voler mettere a tutti lo stesso vestito, ma questo non è pensabile.  

DATI
Oltre il 60 per cento dei minori che hanno fatto parte del circuito della giustizia minorile ha svolto attività di lavoro tra i 14 e i 15 anni. Più del 40 per cento ha svolto attività lavorative al di sotto dei 13 anni e l'11 per cento di loro ha svolto attività prima degli 11 anni. Se si leggono questi dati – frutto di una indagine di Save The Children dal nome "Lavori ingiusti" – in relazione alla carriera scolastica degli intervistati, emerge come il coinvolgimento precoce nel lavoro abbia una "forte relazione con i percorsi accidentati e difficili". Già dalle elementari il 12 per cento dei minori che hanno avuto esperienze di lavoro precoce hanno abbandonato la scuola o sono stati bocciati una o più volte. Una percentuale che sale notevolmente nella scuola media, fino a quote del 56 per cento. Ma ciò che emerge in modo chiaro dall'indagine è che il rapporto con la scuola di questi ragazzi è estremamente conflittuale. Esiste connessione tra la dispersione e la scelta di commettere atti illeciti? Secondo la maggior parte degli "operatori" intervistati la scuola è percepita dai ragazzi inseriti in contesti di giustizia minorile come "un ambiente respingente", un percorso a ostacoli e non come un'opportunità. Inoltre – continua il rapporto - la disillusione sulle reali possibilità che può dare una carriera scolastica è molto forte e condivisa: .
“FALLISCE QUELLA SCUOLA CHE DICE AI PIÙ DEBOLI DI FARSI DA PARTE”
Don Gino Rigoldi è uno dei simboli della Milano che combatte. Cappellano del carcere minorile “Beccaria”, ha ascoltato la voce di tanti giovani che avevano perso la strada maestra, ha preso le loro mani irrequiete e ha provato a dare loro una alternativa alla criminalità e alla devianza. Con l’associazione “Comunità nuova”, fondata nel 1973, ha offerto ai ragazzi un’opportunità di reinserimento nella società, sostenendoli nella ricerca di un lavoro o nella ripresa dell’attività scolastica. Se, come sottolinea, tra abbandono scolastico ed emarginazione esiste «un rapporto biunivoco», per Don Gino fallisce quella scuola (e quella società) che dice ai più deboli di «farsi da parte». Non tutti hanno un «vivo retroterra familiare, sociale, economico», ma se messi in grado di esprimere se stessi possono «convogliare il loro entusiasmo, la loro ambiguità in un meccanismo positivo».  
Di cosa c’è bisogno nelle scuole?  
Di professionisti, ma anche di persone che sappiano creare una relazione con i ragazzi. A quell’età c’è solo un modo per farsi ascoltare: fare capire ai giovani che stai parlando proprio con loro. Se invece si sentono clienti di generici dispensatori di conoscenze, allora non c’è niente da fare. Sembra scontato, ma non si va a scuola solo per imparare delle nozioni: dovrebbe essere una palestra di vita. Nella mia esperienza ho visto tante classi di “sciagurati”, che iniziano a imparare grazie a degli insegnanti capaci di comprendere le loro difficoltà di ogni giorno, e non solo quelle scolastiche. Gli adolescenti sono nuovi alla vita, imparano dalle parole, non dai silenzi. La relazione è la porta dell’educazione. Ma non è una dote che hanno tutti, né si improvvisa.  
I modelli negativi possono influenzare i comportamenti dei ragazzi?
Solo grazie alla relazione si riescono a radicare in loro certi comportamenti, certe passioni, certi modi di pensare. In assenza di modelli diversi, quelli della tv sono prevalenti. Se i ragazzi non hanno rapporti con i genitori i concetti del denaro, della visibilità, del protagonismo diventano gli unici credibili. Al sud poi l'industria della malavita fa dei bei disastri, soprattutto quando certi gruppi delinquenziali ti fanno capire come fare i soldi in modo molto facile. Al nord succede forse meno, ma le periferie sono piene di gente povera, che spesso entra in carcere per reati di sopravvivenza. Il carcere allora è visto come punizione insensata alla povertà.
I ragazzi che finiscono nell’universo della giustizia minorile spesso non continuano gli studi. Come si fa a uscire da questa circolo perverso?
In carcere dovrebbe essere possibile puntare veramente a ottenere il diploma di terza media e fare le prime due classi di superiori. Dovrebbe migliorare la collaborazione con le scuole, in modo da potere fare proseguire gli studi fatti dentro la prigione anche fuori. Invece questo è un lavoro che fanno ancora solo in parte le comunità.  
Molti ragazzi cambiano diversi istituti nel corso della loro detenzione. E questo non dà continuità ai loro studi.  
Mediamente i ragazzi non restano anni in carcere, ma lo spostamento in case circondariali sparse in vari luoghi di Italia distrugge ogni velleità formativa.  
I problemi maggiori si hanno quando i ragazzi escono dal carcere.  
Lo spettro della disoccupazione giovanile si abbatte ancora di più sui ragazzi che escono dal carcere, che per loro stessa natura sono più vulnerabili. Se per la fase in cui si ritrovano di nuovo nella società è stato fatto un progetto ad hoc per loro – che sia lavorativo o scolastico – allora c’è un basso rischio di recidiva e queste persone avranno la possibilità di inserirsi correttamente in un nuovo contesto. Altrimenti ricadranno nel nulla da cui sono partiti.  

DATI
Derisi in classe dai compagni, scherniti sui social network. Ma soprattutto abbandonati a un senso di solitudine e di rifiuto che non ha eguali in altre fasi della vita. Bersaglio di attacchi, insulti, gesti d'odio, gli adolescenti omosessuali rimangono seduti in un angolo delle classi delle nostre scuole, soli e rintanati in un silenzio tombale che esclude amici e famiglia. L'omofobia può essere una fonte gravissima di disagio, al pari, se non peggio, di altre fonti di discriminazione basate sull'etnia o sulla classe sociale. L'età della scuola è quella in cui spesso si prende progressivamente confidenza con l'identità di genere e l'orientamento sessuale.Secondo uno studio del FRA, agenzia europea per i diritti fondamentali, durante la scuola e prima dell'età dei 18 anni, più di 8 ragazzi su 10 in Europa hanno visto prendere di mira un compagno di classe per la sua omosessualità. Il 67 per cento degli intervistati appartenenti a gruppi LGBT ha ammesso di avere nascosto la propria omosessualità durante la scuola.
“NON SOLO L’OMOSESSUALITÀ, ANCHE IL DIVORZIO PUÒ ESSERE TABÙ”
Isabella Milani, questo è lo pseudonimo che ha scelto per rimanere anonima, è una professoressa italiana, che ha aperto un blog sulla scuola e ha scritto un libro dal nome “L’arte di insegnare, consigli pratici”. In assenza di dibattito sul modo di trattare nelle scuole temi considerati “tabu”, ha deciso di informarsi, di studiare, per combattere, dall’interno, la paura e il senso di smarrimento dei ragazzi provocati dall’intolleranza e dall’indifferenza. Gli insegnanti che non parlano di certi argomenti, «per evitare le reazioni dei genitori», sono la maggioranza. La paura di subire attacchi e di essere accusati di deviare la morale di giovani menti è troppo forte, nonostante dall’altra parte ci siano ragazzini chiusi nel disagio, soli di fronte al mondo, le cui storie a volte finiscono nelle cronache nazionali quando arrivano, disperati, a compiere gesti estremi. Un silenzio ingiustificabile, perché i ragazzi, spiega Milani, «ci sono tutti nelle scuole», anche quelli che provengono da famiglie in cui certi gesti sono considerati immorali, per motivi religiosi o culturali. «Anche il divorzio e l’aborto possono essere argomenti scomodi».  
Gli insegnanti parlano di sessualità e omosessualità?  
La maggior parte no. Chi lo fa, ne parla in modo esclusivamente scientifico, senza sbilanciarsi troppo. Molti docenti hanno paura delle conseguenze, e perciò rinunciano sapendo che se i genitori reagissero lo Stato non li proteggerebbe. Pensiamo al caso della lettura di “Sei come sei” di Melania Mazzucco. Il fatto che gli insegnanti siano stati denunciati per divulgazione di materiale osceno deve fare riflettere.  
Sono messi in condizione di parlarne?
Uno dei motivi per i quali gli insegnanti non parlano di omosessualità è il fatto che non sono preparati per farlo. Lo fanno gli insegnanti di scienze, che però non toccano tutti gli aspetti legati alla sfera sessuale, come le paure e i problemi. Gli insegnati che fanno lezioni sulla sessualità sono quelli che hanno studiato da soli l'argomento.
Crede che sia giusto contrastare le idee che vengono da culture o da convinzioni diverse?  
Le famiglie rivendicano il diritto di educare i figli come credono. E per questo che protestano, a volte in modo acceso. Anche io mi chiedo sempre: abbiamo il diritto noi insegnanti di fare cambiare le idee ai ragazzi? Dobbiamo tenere conto dell’impatto che ha in certe famiglie straniere l’occidentalizzazione dei loro figli. Bisognerebbe che si aprisse un dibattito.  
Da cosa deriva il disagio di insegnanti e ragazzi?  
La scuola è un’istituzione che deve istruire, ma anche educare. Ci troviamo continuamente a dovere correggere comportamenti razzisti, omofobici, violenti. I ragazzi hanno grandi potenzialità, ma non riusciamo a farle emergere. E non possiamo aiutare chi vive dei disagi o ha delle difficoltà.  
Quali potrebbero essere delle soluzioni al problema?  
Semplice: più risorse e più personale. Per aiutare gli alunni in difficoltà bisognerebbe che ogni scuola avesse a disposizione, regolarmente e non saltuariamente, la consulenza di specialisti, soprattutto psicologi e logopedisti. L’omofobia si combatte nella società, non solo nelle scuole. Per cambiare la mentalità omofobica non bastano delle lezioni sulla diversità, ammesso che gli insegnanti abbiano il coraggio di proporle.  

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