Siamo ancora a parlare dell’Opera di Roma. Pare evidente che nella capitale si stia giocando una partita importante, nodale anzi, per la futura vita musicale di tutto il paese. Lo spettro dellaesternalizzazione sembra dunque materializzarsi anche per gliEnti lirici, dopo aver infranto velleità e speranze dei teatri di tradizione. Bene ha detto l’orchestrale dell’Opera di Roma, in collegamento su Omnibus il 22 ottobre, affermando che con quei 192 licenziamenti si sta collaudando un modello da applicare in tutta Italia.
Vediamo nello specifico lo scenario che si presenterebbe per gli organici artistici, una volta ‘esternalizzati’. La messa a punto del sistema è già avvenuta, negli anni addietro, in molti teatri di tradizione, che si sono appoggiati a estemporanee cooperative, appositamente create e spesso gestite da avventurieri, la cui preoccupazione è giocare al ribasso con i musicisti e incassare presto e bene dai teatri. A corredo, diremo che sono documentati dei casi in cui direttori della cooperativa sono spariti con la cassa, lasciando a tasche vuote gli organici.
Per conoscenza dei lettori, spieghiamo come si articola la giornata tipo di un corista da cooperativa: premetto che per questi è tassativo conoscere l’opera, in quanto il ruolino di marcia non prevede che quattro ore di “sala”, ovvero di prove musicali col direttore (ridotto qui piuttosto al ruolo di mandriano), un pianista e i cantanti con spartito alla mano: va da sé che, in conseguenza di ciò, i cartelloni offrono solo opere di ‘grande repertorio’ e che il livello artistico venga drasticamente mutilato.
Eccoci dunque alle prove di regia, dove, per contratto nazionale, il cantante dovrebbe solo accennare: la consolidata regola nasce allo scopo di non affaticare la voce, in quanto i movimenti di scena si ripetono decine di volte e pertanto una tale frequenza sarebbe insostenibile. Ricordiamo che il canto lirico è considerato attività usurante, dalla vigente normativa previdenziale.
Sei giornate come questa, dove il corista arriva alle 14 in teatro a spese proprie e senza buoni pasto e lo lascia mai prima delle 22 se si escludono le recite, ed ecco montato, ad esempio, un Nabucco (è successo, non saltate sulla sedia!). E questo non al dopolavoro dei ferrovieri, ma in un teatro di tradizione, architettura settecentesca e foyer con stucchi e velluti rossi.
Direte: sì, ma il gettone compenserà! Per nulla: una tale giornata vale 50 euro netti circa. Quindi l’intera produzione ti gratifica di euro 300. L’ingaggio è appena superiore per gli orchestrali, che in aggiunta suonano con strumenti propri costosissimi e che necessitano di manutenzione specializzata.
Stiamo parlando di musicisti professionisti, con studi severissimi alle spalle e ingaggiati, dopo audizioni a concorso in tutti i teatri europei dove, manco a dirlo, i compensi e i tempi per montare un’opera sono tutt’altri.
Ecco quindi confezionato un altro stuolo di malcapitati, che si va a unire alla pletora di reietti che la nostra società va producendo con frenetica rapidità e spietata efficienza: gli esodati, gli incapienti, i precari. Attendiamo un neologismo o la riesumazione di un lemma in disuso che li definisca, ora che anche loro hanno il loro posto nelle tormentate cronache che vengono dal mondo del lavoro.
Ma suggerisco che sia oscuro, lontano e criptico come tutti gli altri, perché lasciare affacciare l’opinione pubblica sulla cruda realtà ‘pare brutto’.
A fronte di un Tremonti che disse che con la cultura non si mangia, noi ribadiamo che essa mette ali, dove il pensiero unico si attiva per mettere bavagli, se non catene. E che la sua ancella prediletta, l’arte, universalizza il pensiero e abbatte le barriere sociali, laddove il sistema tenta accanitamente di isolarci perfino dal comunicare coi nostri vicini europei. Ciò è attestato da come l’inglese viene a tutt’oggi insegnato nel nostro ordinamento scolastico, o come, qualche anno fa, il governo Berlusconi tentasse vanamente di mettere la mordacchia alla rete.
La resistenza che l’ipotesi di esternalizzare sta incontrando a Roma si fonda sulla piena coscienza che, una volta attuata, ogni velleità diqualità artistica e ogni obiettivo di eccellenza verrebbero fatalmente compromessi. I musicisti di Roma non sono affatto professionisti viziati che puntano i piedi per salvare i propri privilegi. Al contrario essi vedono minacciata la natura e il senso stesso del loro lavoro e hanno perfettamente compreso la loro funzione di difensori, che devono parlare a nome di tutto il comparto artistico: aver tentato di additarli come responsabili di quanto accaduto all’Opera di Roma è un atto mistificatorio e meschino, che ha l’effetto di isolare l’artista dalla società civile, quando invece è l’interprete e il custode dei suoi valori più profondi.