venerdì 31 ottobre 2014

UN ALLUVIONE QUI,...UNO LA'

Gli alluvionati di domani ringraziano

by benicomuni

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di Giorgio Nebbia*
Sono passati venticinque anni da quando il parlamento ha approvato l’importante legge sulla difesa del suolo che porta il numero “183”. La legge fu salutata da molti come un passo concreto per far cessare o almeno rallentare la lunga serie di alluvioni cominciata nel 1951 con quella del Polesine, poi continuate ogni anno, con alcuni eventi clamorosi come l’alluvione di Firenze del 1966. Da allora era stato un seguito senza fine di disastri territoriali in tutta Italia; anzi l’approvazione della legge 183 fu accelerata dalla grande frana e alluvione della Valtellina del luglio 1986, con 53 morti e 4.000 miliardi di lire di allora (circa 4 miliardi di euro di oggi) di danni.
La 183 partiva da alcuni concetti noti; la difesa del suolo e la regolazione del flusso delle acque superficiali richiedono una amministrazione del territorio per bacini idrografici, quelle unità geografiche i cui confini, ben definiti, sono lo spartiacque delle colline e montagne. In ciascun bacino idrografico le acque scorrono dalle vette lungo le valli fino al mare attraverso fossi e torrenti che confluiscono nel fiume principale il quale porta al mare il risultato di tutto quello che succede all’interno del bacino: i residui dell’erosione del suolo, le sostanze inquinanti delle città, delle industrie, dell’agricoltura e della zootecnia, ramaglie e tronchi.
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Purtroppo i confini fisici dei bacini idrografici spesso non coincidono con quelli delle province e delle Regioni, ciascuna delle quali costruisce edifici, strade, ponti, depuratori dove gli pare, senza considerare che non ha senso fare opere di rimboschimento o di difesa del suolo in una valle se nella valle adiacente, dello stesso bacino idrografico, ma “appartenente” ad un’altra amministrazione, le acque irruenti portano a valle terra e tronchi. Non ha senso costruire in una città un efficiente depuratore delle acque se le città e le industrie a monte continuano a versare nello stesso fiume agenti inquinanti.
La legge 183 stabiliva che la gestione di ciascun bacino idrografico era affidata ad una“autorità” comprendente i rappresentanti degli enti locali delle varie parti del bacino, con il compito di fare un inventario di tutte le presenza naturali (terreni agricoli e boschi) e umane del territorio e di formulare un “piano di bacino” per indicare priorità e ordine degli interventi. Figurarsi ! Gli enti locali capirono che alle autorità di bacino era affidata parte del loro potere, quello di stabilire dove si potevano o non si dovevano fare opere e costruzioni. Ci vollero anni per costituire le autorità di bacino e la fame di territorio e di speculazioni e di spartizione di cariche rallentarono la realizzazione dei fini lungimiranti che si era proposto il legislatore. I soldi correvano ma sempre soltanto per rimediare qualche disastro. In molti in Italia “si innamorarono” della legge 183 e furono organizzati dibattiti e associazioni per sostenere la sua attuazione e per rimuovere i freni dei molti nemici.
“Finalmente” venne l’occasione per smantellare tutto. Nel 2000 la Comunità Europea emanò la direttiva n. 60 che si proponeva di rendere omogenee, in tutta l’Unione, le politiche di difesa del suolo e delle acque; i bacini idrografici avrebbero dovuto essere aggregati in unità più grandi, i “distretti idrografici”, con nuovi criteri di amministrazione. Con la scusa di adeguare la politica della difesa del suolo alla normativa europea, la legge 183 fu abrogata con il “testo unico” ambientale del 2006, partorito poco prima della fine del III governo Berlusconi, e l’intero progetto iniziale di pianificazione dell’uso del suolo e delle acque scomparve, per la maggior gloria di chi voleva liberarsi di intralci nell’assalto del territorio. Questa svolta politica e l’aggravarsi dei fenomeni di riscaldamento globale hanno accelerato i fenomeni devastanti fino a quelli della Lunigiana e del Gargano di ieri l’altro, di Genova e Parma di ieri.
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Ho sentito spesso ripetere che la colpa di tali eventi va cercata nel ritardo delle informazioni meteorologiche. A mio parere per evitare frane e alluvioni, non c’è tanto da consultare i modelli matematici di previsione delle piogge, quanto piuttosto c’è da guardare a terra, chiedendosi dove e se c’è spazio per il moto delle acque che inevitabilmente vengono giù dal cielo in quantità più o meno prevedibile, un anno dopo l’altro. Guardare a terra cominciando dalle colline e dalle montagne e dalle colline, dai ruscelli e dai fossi fino ai torrenti e canali che attraversano i paesi e le città, e predisporre che le vie d’acqua dell’intero bacino idrografico siano tenute libere da rocce e detriti dell’erosione, da depositi di rifiuti, da ponti troppo bassi, da strade, da edifici che ostruiscono gli spazi vicino al fiume, quelli che la natura nei secoli aveva predisposto liberi proprio per lasciare correre le acque in caso di piogge più intense. Inventario dell’esistente e vigilanza nell’ambito di ciascun bacino idrografico erano fra i fini della defunta legge 183.
Non abbastanza contenti di averla seppellita, i governi nazionali e locali continuano a proporre opere di salvaguardia e di “messa in sicurezza” consistenti nel costruire bacini artificiali, nell’innalzare argini di cemento, nel coprire ulteriormente sotto le strade i corsi d’acqua straripati ieri.  Gli alluvionati di domani ringraziano.

* Ambientalista, il suo ultimo libro è Dizionario tecnico-ecologico delle merci (Jaka book)
L’articolo di questa pagina, inviato a Comune dall’autore, è stato pubblicato anche su La Gazzetta del Mezzogiorno. Altri articoli di Giorgio Nebbia sono qui

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