martedì 28 ottobre 2014

UNA POSSIBILE VISIONE DEI NOSTRI TEMPI

Speranza contro arroganza

 Alfonso Gianni, 27.10.2014
Dopo il 25 ottobre. Due piazze, una convention: il quadro è chiaro
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La set­ti­mana appena pas­sata, dal 18 al 25 otto­bre, ha segnato un pas­sag­gio deter­mi­nante per la deli­nea­zione del nuovo qua­dro poli­tico e sociale matu­rato nel nostro paese. Ciò che è più impor­tante è che que­sto non è acca­duto nei palazzi isti­tu­zio­nali, ma nelle piazze o in con­ve­gni pub­blici. Milano, 18 otto­bre: la mani­fe­sta­zione «Stop immi­gra­zione» orga­niz­zata dalla Lega Nord con signi­fi­ca­tive ade­sioni extra­lom­barde delle più vivaci orga­niz­za­zioni neo­fa­sci­ste. Firenze, 24–26: la Leo­polda 5, tre giorni di conven­tion orga­niz­zata da Mat­teo Renzi e pro­fu­ma­ta­mente finan­ziata dal peg­gio del capi­ta­li­smo nostrano e non solo. Roma 25 otto­bre: piazza San Gio­vanni, la più grande mani­fe­sta­zione di popolo da almeno dieci anni a que­sta parte (biso­gna risa­lire a quella con­tro la guerra del 15 feb­braio del 2003 per avere un para­gone quan­ti­ta­tivo all’altezza) finan­ziata dai lavo­ra­tori stessi tra­mite le iscri­zioni al sin­da­cato, pre­ce­duta dallo scio­pero dei sin­da­cati di base del giorno prima. Men­tre la meno recente per­for­mance gril­lina del Circo Mas­simo — non pro­pria­mente un suc­ces­sone — sem­bra già sco­lo­rire nei ricordi.
Ognuno di que­sti tre appun­ta­menti ha avuto un segno e un signi­fi­cato pre­ciso dif­fi­cil­mente equi­vo­ca­bili, con i quali biso­gna fare i conti.
Milano: la piazza del ran­core (per rubare un titolo azzec­cato di un libro di Aldo Bonomi). Un ran­core dif­fuso, non più sordo, ma espli­cito che si sfoga con­tro il facile capo espia­to­rio dell’immigrato secondo un rito che risale — direbbe Renè Girard — agli albori dell’umanità e che sem­pre si ripete e si rin­nova. Che prende di mira il potere costi­tuito non solo in Ita­lia, ma in Europa, con la stessa con­fu­sione men­tale e falsa coscienza di sé della rivolta con­tro le plu­to­cra­zie ebraico-massoniche di un secolo fa. Alcune decine di migliaia sul sagrato di piazza Duomo — non saranno stati cen­tou­no­mila come ha detto Sal­vini — sono comun­que una dimo­stra­zione di forza da non sottovalutare.
Ho letto che il para­gone con il fasci­smo è errato, che nep­pure il lepe­ni­smo, cui Sal­vini espli­ci­ta­mente si ispira, potrebbe essere defi­nito tale. Cer­ta­mente Marine le Pen è più accorta e «moderna» del padre. Ovvia­mente nes­sun feno­meno poli­tico sociale si ripete esat­ta­mente; nep­pure la meta­fora mar­xiana della rei­te­ra­zione in farsa è una legge scien­ti­fica. Ma qui siamo di fronte a un fatto nuovo: la deli­nea­zione di un popolo di destra, non sem­pli­ce­mente l’accozzaglia di resi­dui del pas­sato, che sce­glie la sponda della rea­zione pura per con­durre la sua bat­ta­glia alla glo­ba­liz­za­zione e alla crisi. È diverso dal fasci­smo nascente della fine degli anni dieci del secolo scorso? Certo, infatti è peg­gio. Basta con­fron­tare i pro­clami san­se­pol­cri­sti di allora con le parole d’ordine udite nel corso della mani­fe­sta­zione e dal palco milanesi.
Firenze: la con­ven­tion della sup­po­nenza. Dicono 19mila pas­saggi in tre giorni. Non è una cifra da impres­sio­nare nes­suno, in sé e per sé. Si sono incon­trate le nuove éli­tes del paese con un largo con­torno di aspi­ranti tali e di imman­ca­bili ado­ra­tori. Renzi ha addi­rit­tura pre­sen­tato l’incontro come la con­tro­ma­ni­fe­sta­zione rispetto a Roma. Incauto? No, pro­vo­ca­to­rio, ma sin­cero. In effetti la Leo­polda è stata la con­tro­parte della mani­fe­sta­zione romana. Si sono udite cose che ancora dal sen non eran sfug­gite. Non solo l’articolo 18 sarebbe morto e sepolto, ma per­fino il diritto di scio­pero pur nelle sue forme già imbri­gliate. I Serra, che nulla cono­scono della vita e del lavoro, si sono eretti a nuovi inter­preti del mondo. Ex sin­da­ca­li­sti pen­titi — almeno alcuni di que­sti con un po’ di ver­go­gna — ed ex rap­pre­sen­tanti della «sini­stra radi­cale», sono pas­sati sor­ri­denti sotto le for­che cau­dine dei nuovi vin­ci­tori. Le tar­dive dichia­ra­zioni di rispetto di Renzi verso la mani­fe­sta­zione romana, sono solo il pro­dromo per dichia­rarne l’ininfluenza verso un qua­dro e un sistema poli­tico da tempo e oggi ancor più imper­mea­bi­liz­zato alla pres­sione popo­lare. Per Renzi non conta nulla che la stra­grande mag­gio­ranza di quelli che sfi­la­vano in piazza fos­sero elet­tori e per­sino mili­tanti del suo par­tito, poi­ché que­sto non esi­ste più e la Leo­polda ha bol­li­nato la sua spa­ri­zione. Il tent party (il par­tito tenda), come ha detto Nadia Urbi­nati, o come pre­fe­ri­rei il catch all party (par­tito piglia­tutto) — ma non il «par­tito della nazione» dato che siamo di fronte ad una arti­co­la­zione della gover­nance euro­pea — è un non par­tito: tende ad assor­bire la tota­lità non a rap­pre­sen­tare una parte in un indi­stinto che favo­ri­sce, anzi si basa, sul lea­de­ri­smo e la non par­te­ci­pa­zione, sulle cor­date e sulle nic­chie di pic­coli poteri fun­zio­nali alla tenuta del qua­dro, su un sistema auto­re­fe­ren­ziale insen­si­bile ai movi­menti sociali por­ta­tori di pro­po­ste. Il popu­li­smo dall’alto non ammette repli­che dal basso.
Roma: la piazza della lotta e della spe­ranza. Un milione e forse più con­tro la poli­tica di que­sto governo. Di tutte le gene­ra­zioni, con una for­tis­sima pre­senza gio­va­nile. La pla­stica con­fu­ta­zione della pro­pa­ganda ren­ziana secondo cui chi difende l’articolo 18 spe­gne il futuro dei gio­vani e del solito gioco di con­trap­po­si­zione vecchi-giovani, inside-outside nel mer­cato del lavoro, cioè della reto­rica domi­nante anche prima dell’avvento dell’era ber­lu­sco­niana e che ha por­tato alla demo­li­zione del diritto del e al lavoro. Per piazza San Gio­vanni il nuovo re è nudo. Il popolo della sini­stra si è ritro­vato. Ed è alla ricerca di una sini­stra di popolo che ancora non c’è, né si intra­vede, mal­grado alcuni gene­rosi ten­ta­tivi in corso (come quello de L’Altra Europa per Tsi­pras). La mera­vi­gliosa gior­nata di Roma non è quindi una vit­to­ria né sta­bile né tan­to­meno defi­ni­tiva. Molto dipen­derà dalle dimen­sioni che assu­merà l’annunciato scio­pero gene­rale. Pro­prio per­ché sono lustri che non se ne vede uno e nel frat­tempo è mutata la com­po­si­zione del lavoro, la scom­messa è grande. Ser­virà intel­li­genza e capa­cità inno­va­tiva nei con­te­nuti e nelle forme per con­vin­cere in periodo di reces­sione a per­dere una gior­nata di retribuzione.
Ma un nuovo cam­mino è comin­ciato. Se non altro i con­torni delle forze in campo si sono venuti deli­neando, sul piano sociale e su quello poli­tico. Una destra aggres­siva e peri­co­losa, per­ché dotata di radi­ca­mento popo­lare; una elite di governo neo­to­ta­li­ta­ria, che nega la demo­cra­zia dalle sue più pro­fonde fon­da­menta; un popolo di sini­stra che non ama le divi­sioni ma soprat­tutto le false nar­ra­zioni. Il pano­rama è più chiaro. Ognuno può e deve scegliere.

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