sabato 29 novembre 2014

Lima.popolazioni indigene e cambiamenti climatici

Lezione indigena

by benicomuni
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di Francesco Martone
LIMA - Si avvicina la data di inizio della Conferenza delle Parti Onu sui cambiamenti climatici qua a in Perù. Prima del 1 dicembre si susseguiranno iniziative di movimenti sociali ed indigeni; culmineranno con l’apertura di un Padiglione degli indigeni amazzonici e dall’8 dicembre con la Cumbre de los Pueblos. Il 10 dicembre sarà invece la giornata della grande Marcia dei popoli per la giustizia climatica e i diritti umani. Intanto, rappresentanti indigeni si riuniscono per mettere a punto la loro piattaforma e aprire un tavolo di dialogo con rappresentanti di governi.
Tra i punti all’ordine del giorno l’urgenza di assicurare che il nuovo accordo sul clima che verrà approvato alla COP21 di Parigi 2015 sia centrato su un approccio fondato sui diritti umani e dei popoli indigeni in particolare, tema che sarà il leitmotiv di tutte le Ong e movimenti sociali che confluiranno in questi  giorni a Lima. Questo significa che ogni programma o progetto relativo al climate change, che sia di protezione delle foreste, o altre forme di “mitigazione” dei cambiamenti climatici, deve rispettare i diritti umani, e quelli dei popoli indigeni alla terra, territori e risorse, assicurare la piena partecipazione e il principio del consenso previo libero e informato.
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Del resto, se da una parte i popoli indigeni oggi sono i primi a subire gli effetti dei cambiamenti climatici sugli ecosistemi, dall’altra attraverso le loro pratiche di gestione e conoscenza tradizionale possono svolgere un ruolo di primo piano nella prevenzione, mitigazione e adattamento. Attraverso la loro resistenza all’invasione delle loro terre prevengono il rischio di ulteriore landgrabbing su terre e territori già messi a dura prova. Il secondo punto critico è il rischio, centrando tutto sulla mitigazione, di lasciare scoperto un punto chiave, quello del debito ecologico sofferto da popolazioni vittime dei cambiamenti climatici. È lì che assume rilievo invece il tema dell’adattamento, maadattare è meno appetibile alle imprese che mitigare, ed allora meglio concentrarsi sulla green economy piuttosto che la giustizia ecologica.
Il documento base di negoziato su questo tema che verrà approvato a Lima, non ha alcun riferimento a diritti umani, ambientali o sociali, chiede solo ai governi se lo desiderano di informare su come le attività di mitigazione contribuiscono alla riduzione delle emissioni di carbonio. Questo non è sufficiente. Mentre il documento che formerà la base del negoziato di Parigi ora contiene un riferimento esplicito alla necessità di ripsettare i diritti umani e dei popoli indigeni.
Un tema resta aperto: quello di andare oltre un testo “cosmetico” di buone intenzioni e provare a rimettere in discussione l’intero paradigma. Dal momento che il tema dei cambiamenti climatici non può essere ridotto a un mero calcolo di benefici e costi economici ed in termini di gas serra. “System change not climate change” come dicono e reti per la giustizia climatica.
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Dall’altro capo del mondo parte dunque un messaggio che dovrebbe entrare dritto nelle orecchie di chi a casa nostra dalle parti di Palazzo Chigi ha deciso di rilanciare l’estrazione di petrolio e combustibili fossili. E dall’altra parte stanzia oltre 300 milioni di euro per il Fondo Verde per il Clima. Già perché a vederla da qua l’Italia oggi è un mix tra territori che soffrono gil effetti dei mutamenti climatici (e che hanno diritto a politiche di adattamento, ad esempio attraverso piani di gestione del territorio) e territori e comunità che resistono all’espansione della frontiera petrolifera, spinta dall’urgenza di fare cassa e rimettere a posto i bilanci sotto la pressione della Trojka. Qua la versione andina è prerogativa del Fondo Monetario, ma mutando l’ordine dei fattori il risultato non cambia.

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