sabato 27 dicembre 2014

tempo e lavoro

Il tempo e il lavoro

by Citta invisibile
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di Stefano Fassina*
Il libro di Marco Craviolatti (E la borsa e la vita, Ediesse**) va controcorrente: incalza con buona teoria e solidi dati empirici la corrente del pensiero unico che, nonostante gli evidenti fallimenti, continua a dominare il dibattito pubblico e l’agenda politica. E propone un paradigma e percorsi alternativi, in particolare la redistribuzione del tempo di lavoro. Per rispondere alle sfide di fronte a noi è, infatti, necessario rompere la gabbia culturale liberista e guardare in faccia la realtà. Come recentemente sottolineato dalla ricerca di Thomas Piketty Capital in the Twenty-First Century (Il Capitale nel XXI secolo), imponente per quantità di evidenza empirica e capacità interpretativa critica, l’assetto regolativo liberista dei mercati globali determina una drammatica asimmetria nei rapporti di forza tra capitale e lavoro. Questo è il punto di fondo per ridefinire l’agenda delle forze progressiste sul piano culturale, politico e sociale.
Dopo la seconda guerra mondiale le condizioni di contesto e il modo di produzione davano una forza inedita al lavoro rispetto al capitale. Per alcune condizioni fondamentali: le economie europee, largamente distrutte dalla guerra e rimaste indietro rispetto agli Stati Uniti, avevano spazi di ricostruzione e di catching up tecnologico amplissimi e la domanda di lavoro da parte delle imprese era in continuo aumento; il fordismo portava alla concentrazione di lavoro e all’omogeneità delle sue condizioni; il baby boom e l’aumento delle retribuzioni favorivano, attraverso l’espansione dei consumi, un circolo virtuoso; un elevato sentimento di comunità nazionale costruito dalle sofferenze belliche dava legittimità etica agli interventi redistributivi attraverso la tassazione e il welfare; in ultimo, ma non per importanza, la competizione e la minaccia del comunismo spingevano il capitale a accettare mediazioni con la soggettività politica e sociale del lavoro. Insomma, fattori eccezionali invertivano le regolarità economiche del capitalismo: la crescita delle economie occidentali superava la remunerazione del capitale e la di stribuzione primaria del reddito e della ricchezza miglioravano.
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Il compromesso tra capitale e lavoro, faticosamente conseguito dopo la seconda guerra mondiale, fu tuttavia raggiunto in circostanze eccezionali. I trent’anni cosiddetti «gloriosi» che l’Europa, gli Stati Uniti e il Giappone hanno vissuto dopo la seconda guerra mondiale – come ci aiuta a chiarire Piketty sulla base dei dati empirici raccolti nelle sue ricerche – costituiscono un’eccezione se analizzati in base a uno sguardo di lungo periodo. Il funzionamento ordinario del capitalismo mostra infatti una regolarità meno gloriosa: la remunerazione del capitale supera, in genere, la crescita delle economie e la remunerazione del lavoro. Il capitalismo, in via ordinaria, amplia le disuguaglianze e tende a concentrare la ricchezza nelle piccole frazioni più agiate della popolazione.
La rivoluzione conservatrice avviata da Reagan e Thatcher, la reazione organizzativa delle imprese alla forza del lavoro, la declinazione esclusivista del paradigma dell’Ict (Information and communications technology), l’illusorio individualismo consumistico delle crescenti classi medie, l’implosione burocratica e totalitaria del comunismo hanno eliminato o largamente ridimensionato i fattori alla base dell’indubbio successo del capitalismo democratico. Con ripercussioni fondamentali su tutto, a cominciare dalla condizione del lavoro che ha perso valore non solo dal punto di vista economico ma anche sul piano sociale, della soggettività politica e della dignità della persona. Il capitale ha avuto la possibilità di spingere la concorrenza al ribasso tra lavoratori e di fareshopping di lavoro sui mercati globali. I lavoratori si sono trovati a dover accettare, per poter andare avanti, condizioni via via peggiori. Da qui nascono le radici della disuguaglianza: radici che si trovano innanzitutto nella distribuzione primaria del reddito. In sintesi, il capitale ha stravinto. Ha vinto così tanto che, a un certo punto, il processo di accumulazione ne è risultato totalmente squilibrato. Finita nel 2007 la sbornia della finanza allegra, il meccanismo si è inceppato per carenza di domanda: la distribuzione del prodotto è risultata così sbilanciata verso la parte altissima della scala distributiva e sociale (l’1%) che l’altra parte (il 99%) non ha avuto risorse sufficienti per sostenere una domanda adeguata. L’accumulo di patrimonio e di ricchezza e l’aumento della disuguaglianza hanno creato un circolo vizioso, una situazione che tende a perpetuarsi e che produce peraltro stagnazione, frenando la crescita.
La regressione del lavoro e lo svuotamento delle democrazie delle classi medie hanno radici nella globalizzazione deregolata dei mercati di capitali e di beni e servizi. La sinistra, nel Novecento, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, poteva intervenire a regolare l’economia perché aveva conquistato e costruito gli strumenti della democrazia nazionale: suffragio universale, partiti, sindacati, controllo dei movimenti di capitale, regolazione degli scambi commerciali di merci e servizi con l’estero. Da almeno trent’anni, la democrazia nazionale e conseguentemente la sinistra non hanno più le condizioni per regolare l’economiaLa politica a scala nazionale, nel quadro regolativo dato, è debole: ancella dell’economia. Insomma, per come è stato e viene regolato, per come sono cambiati i connotati della regolazione delle economie, il capitale del XXI secolo produce disuguaglianze e disparità crescenti, come accadeva prima di quei trent’anni.
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Noi oggi siamo nel vivo di una fase straordinaria. Quella che stiamo vivendo non è una crisi, ma una «grande transizione» che cambia il contesto in cui si vive, si fa economia, si lavora. Tra il 2007 e il 2008 si è rotto l’equilibrio, insostenibile sul piano ma cro-economico, sociale e ambientale, promosso nel trentennio alle nostre spalle dal paradigma neo-liberista. La causa di fondo della rottura non è la finanza. Anzi, la finanza allegra è stata la droga che ha consentito di far andare avanti un organismo squilibrato. La causa della rottura dell’equilibrio di fine secolo scorso è la regressione del lavoro, dei padri e dei figli, e la conseguente impennata della disuguaglianza di reddito, ricchezza, mobilità sociale e, inevitabilmente, potere economico, mediatico e politico. Il lavoro, innanzitutto il lavoro subordinato, in tutte le sue forme esplicite o mascherate, è l’epicentro del terremoto. Il cambiamento regressivo oggi ha un’accelerazione fortissima. Tutta l’agenda per gli interventi nell’Europa segnata dalle destre conservatrici e in Italia è, invece, legata alla realtà degli anni ottanta e novanta: un’agenda liberista rispetto alla quale anche una parte della sinistra è ancora subalterna. Austerità cieca e svalutazione reale del lavoro per provare a recuperare in esportazioni la caduta della domanda interna depressa dall’aumento delle diseguaglianze. In sintesi, siamo vittime del «trionfo delle idee fallite», come ripete Paul Krugman, prigionieri di una «secular stagnation».
Tale analisi è stata proposta nel corso della Conferenza annuale di ricerca del Fondo monetario internazionale del 2013 da Larry Summers, ex ministro del Tesoro Usa. Durante la Presidenza Clinton, Summers ha lancia to l’allarme sulla possibile «stagnazione secolare» che l’economia globale starebbe attraversando, una lunghissima stasi che metterebbe a rischio le nostre società. Se si seguono gli eventi e si guarda alle statistiche, è effettivamente abbastanza naturale sollevare ancora una volta i timori che l’economista Alvin Hansen espresse sessantacinque anni fa, quando evidenziò che una bassa crescita della popolazione avrebbe prodotto una situazione di persistente inadeguatezza della domanda. Il concetto di «stagnazione secolare» era stato introdotto negli anni trenta da Hanses per descrivere la «Grande Depressione». Una recessione così prolungata come quella di allora non sarebbe stata una fase negativa della congiuntura, ma una drammatica riduzione dei fattori alla base della crescita economica. Il calo della popolazione e le mancate innovazioni tecnologiche erano, secondo Hansen, i principali responsabili. Ma al tempo di Hansen, come ricorda Krugman, ciò non si è verificato a causa del baby boom del dopoguerra e per l’importante processo tecnologico indotto dai colossali in vestimenti pubblici in infrastrutture, nella scolarizzazione e in ricerca e sviluppo, che migliorarono la produttività.
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Oggi, la tendenza dei tassi di crescita di lungo periodo a ridursi sostanzialmente (per motivi demografici, per gli squilibri distributivi tra capitale e lavoro, per il progresso tecnico, e altro) contribuisce ad alimentare l’aumento della diseguaglianza, che a sua volta è data come la causa di riduzione del tasso di crescita di lungo periodo, come evidenziato da Piketty. L’economia mondiale è in un momento in cui la politica monetaria è neutralizzata da tassi prossimi allo zero, negativi in termini reali, quindi è sostanzialmente inefficace. La cosiddetta «trappola della liquidità» (un modello di funzionamento nelle crisi teorizzato da Keynes) fa sì che, in un quadro di carenza di domanda aggregata, nessuno utilizzi i soldi per consumi o investimenti. In queste condizioni le normali regole non funzionano e «la virtù della prudenza diventa follia», il risparmio fa infatti male all’economia perché riduce i consumi che a loro volta inibiscono gli investimenti e determina deflazione, come viviamo nell’euro-zona. In queste condizioni il «naturale tasso di interesse» è negativo. Nella «trappola della liquidità» il risparmio «non è una virtù privata ma un vizio sociale». In tale ottica, il concomitante effetto delle politiche di austerità imposte al comparto pubblico e delle sempre meno attraenti condizioni di impiego del risparmio privato spinge il mercato globale verso la «stagnazione secolare», laddove il ciclo economico non riesce più a trovare una via per lo sviluppo.
Insomma, come è oramai evidente, in particolare nell’eurozona (dal 2007 al 2014, 7 milioni
di disoccupati in più, Pil ancora 3 punti percentuali al di sotto del livello di inizio crisi, debiti pubblici saltati in media di 30 punti percentuali, dal 65 al 95%), siamo su una strada di austerità autodistruttiva. La ricetta del mercantilismo liberista imposta dai conservatori nordeuropei, raccomandata dalle istituzioni dell’Ue e fatta propria da ampie fette della sinistra, non sta producendo alcun miglioramento della condizione economica complessiva. Così non solo si minaccia la tenuta del progetto europeo, ma si compromettono la civiltà del lavoro e la democrazia delle classi medie che sono il più grande successo dell’Europa del dopoguerra. È necessario correggere subito la rotta, per non andare a sbattere. Dobbiamo ripensare a quale crescita desideriamo, quale tipo di sviluppo, cosa e come produrre. La stella polare da seguire è quella del cambiamento progressivo. Il cambiamento è progressivo quando lavoro e libertà entrano in sinergia, quando il lavoro acquista soggettività politica e nella partecipazione democratica la persona, a partire dal lavoro, riprende in mano il proprio destino. Per la realizzazione di questo nostro proposito dobbiamo batterci contro ogni tentativo in corso di svalutazione e regressione del lavoro. Dobbiamo batterci contro ogni «mitica» riforma strutturale, formula retorica per indicare l’ulteriore precarizzazione del lavoro finalizzata alla definitiva marginalizzazione dei sindacati e alla riduzione delle retribuzioni. È necessario cambiare rotta, ripartire dal lavoro e ridefinire il rapporto tra persona e lavoro, tra persona che lavora e tempo di lavoro.
L’esigenza di un rapporto diverso tra la persona e il lavoro, tra la persona che lavora e il tempo di lavoro pone al centro del dibattito la questione della qualità della vita in rapporto alla qualità del lavoro. La variabile «tempo», come rilevato da numerosi studi e ricerche, risulta oggi determinante nella valutazione e nella percezione della qualità del lavoro. Ma non solo. La fase di scarsità del lavoro, generata dalla «grande transizione» che investe oggi le economie occidentali, ha contribuito a far riemergere l’esigenza di unaredistribuzione del lavoro come mezzo per ridurre la disoccupazione e alimentare uno sviluppo sostenibile. E l’esigenza di un rapporto diverso con il tempo del lavoro, insieme all’esigenza di una riduzione dell’orario di lavoro, devono essere oggi declinate in un Piano per la redistribuzione del tempo di lavoro.
Le condizioni poste richiamano l’attenzione sulle due differenti dimensioni che caratterizzano il lavoro: la dimensione qualitativa e la dimensione quantitativa. Il rapporto inscindibile tra queste due dimensioni, nei termini di una loro declinazione in misure concrete, è ciò che deve sostanziare e caratterizzare la nostra idea di lavoro e l’esperienza della persona che lavora. Lo stesso retroterra analitico del dibattito sulla riduzione degli orari di lavoro, nella sua complessità e articolazione, investe i temi della qualità della vita, la flessibilità dei sistemi produttivi e delle imprese, le scelte dei singoli e delle famiglie fra il tempo del lavoro e il tempo del non lavoro, che coinvolge in forma esplicita il versante dei processi formativi. Le possibili misure di redistribuzione del tempo di lavoro si esplicitano e declinano, dunque, tanto su un piano culturale e antropologico, quanto su un piano economico e programmatico. La riflessione di Benedetto XVI, che ha messo in discussione alla radice il paradigma liberista e il primato dell’economia sulla politica, posizione ripresa e approfondita in un quadro teologico diverso da papa Francesco, rappresenta la sfida sulla quale dobbiamo impegnarci: ridefinire il senso del lavoro per affermare, nel quadro di un’economia globale oggi senza regole democratiche, un «neo-umanesimo laburista». L’obiettivo è quello di ridefinire il rapporto tra persona e lavoro e superare così, da un lato, la visione della persona astratta dalle relazioni sociali asimmetriche e, dall’altro,  l’interpretazione del lavoratore come soggetto in differenziato, componente di una classe omogenea. Bisogna riscoprire, nell’irriducibile dimensione sociale della persona, l’assoluta unicità di ciascun essere umano. Sul terreno economico, il proposito di un lavoro individualmente e socialmente gratificante va definito e attuato attraverso un Social compact che preveda, ad esempio, nell’Unione europea, un salario minimo differenziato in percentuale al Pil pro capite di ciascun paese e un piano per la redistribuzione del tempo di lavoro, unica strada per riassorbire la drammatica disoccupazione, soprattutto giovanile, e per migliorare la qualità della vita delle persone e delle famiglie.
Un piano per la redistribuzione del tempo di lavoro non deve esclusivamente prevedere, dunque, misure riducibili al tema classico dell’orario di lavoro. Non si tratta di imporre rigidi limiti all’orario di lavoro (le «35 ore»). Si tratta di: introdurre flessibilità nell’uscita dal lavoro per pensionamento e pensionamento part-time; incentivare il part-time e i congedi parentali; potenziare gli incentivi fiscali per i contratti di solidarietà (da finanziare mediante i risparmi di spesa per le indennità di disoccupazione e la cassa integrazione);promuovere l’introduzione del part-time agevolato e volontario; incentivare il rientro al lavoro delle donne ultra-quarantenni; potenziare, secondo i principi della sussidiarietà, i servizi alla famiglia (dagli asili nido all’assistenza agli anziani non-autosufficienti); facilitare attraverso servizi alla famiglia, sia per i minori che per gli anziani non autosufficienti, la partecipazione al lavoro da parte delle donne. Esistono oggi una molteplicità di contesti in cui gli strumenti di conciliazione tra tempo di lavoro e tempo di vita vengono sperimentati. Obiettivo di un Piano di redistribuzione del tempo di lavoro deve essere quello di eliminare gli ostacoli ancora presenti nella realizzazione di tali esperienze. Come sostiene Pierre Carniti: «Una redistribuzione degli orari di lavoro e del tempo di lavoro è la via maestra».
EDEppure, di fronte a milioni di persone che non trovano o che hanno perso il lavoro, l’Italia è l’unico paese che ancora prevede sgravi fiscali per gli straordinari. Eppure, di fronte a milioni di persone che non trovano lavoro non si agisce sulla domanda ma si continua ad agire sull’offerta di lavoro, puntando a liberalizzare i contratti a tempo determinato e a ridimensionare il contenuto formativo dei contratti di apprendistato. Eppure, continua a prevalere il paradigma giuslavorista liberista che, in questi anni, ha proposto la flessibilità come condizione per lo sviluppo, mentre oggi abbiamo fondamentalmente il problema della domanda, non dell’offerta, per riprendere il cammino. Il risultato è la regressione del lavoro, la stagnazione economica e l’insostenibilità del debito pubblico.
Occorre allora costruire un paradigma in grado di coniugare l’irriducibile individualità della persona e la sua condizionante dimensione sociale. Occorre, per questo, riportare prepotentemente al centro del dibattito pubblico il tema della qualità del lavoro e di una redistribuzione del tempo di lavoro, contro ognit entativo imperante teso a una sua svalutazione. In tale ottica, il libro di Marco Craviolatti. E la borsa e la vita. Distribuire e ridurre il tempo di lavoro: orizzonte di giustizia e benessere, sostanziato da un’analisi puntuale corroborata da numerosi dati e originali spunti diriflessione, rappresenta un tassello prezioso nella definizione di un Piano di redistribuzione del tempo di lavoro che – come ritiene lo stesso Craviolatti – sia «risposta promettente di cambiamento». Qui e ora.

* Deputato, ex vice ministro dell’Economia e delle Finanze
** L'articolo di Stefano Fassina è la prefazione di E la borsa e la vita. Distribuire e ridurre il tempo di lavoro: orizzonte di giustizia e benessere, edito da Ediesse

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