giovedì 26 marzo 2015

dove va la pesca?

A che punto è la pesca: intervista a Ettore Ianì

IanìCominciamo la serie di approfondimenti che ci porterà a Slow Fish con un’intervista a Ettore Ianì, presidente di Legapesca e moderatore del Laboratorio dell’acqua La pesca protetta di sabato 14 maggio alle 14,30. Il testo che segue è tratto da una lunga chiacchierata con Letizia Martirano, direttrice dell’agenzia di stampa specializzata Agrapress, in cui Ianì comincia col dipingere un quadro del settore abbastanza cupo…
Negli ultimi dieci anni la filiera del settore primario della pesca e dell’acquacoltura registra segni pesantemente negativi in tutte le principali variabili macroeconomiche: la produttività diminuisce del 48%; a fronte di una riduzione della flotta del 30%, il personale imbarcato si riduce di circa il 40%, con una perdita di oltre 18.000 posti di lavoro; i ricavi di impresa subiscono una contrazione del 31%; il deficit della bilancia commerciale ittica si attesta sui 4,8 miliardi di euro l’anno, con una spesa sui mercati esteri di circa 12 milioni di euro al giorno. A questi dati sconfortanti dobbiamo aggiungere gli impatti molto pesanti delle diverse crisi ambientali che hanno interessato la fascia costiera, così come delle attività produttive che su questa insistono e che incidono sull’equilibrio dell’ecosistema marino.

Vale a dire?
Tralasciando la concorrenza sleale esercitata dalla pesca sportiva e dilettantistica, basta considerare un dato: tra servitù militari e zone di protezione degli impianti estrattivi offshore attualmente risultano sotto protezione ed interdette alla pesca zone pari a circa il 15% delle acque territoriali all’interno delle 12 miglia, per una estensione di circa 2 milioni di ettari complessivi. Una superficie in cui rientrano anche le limitazioni che derivano dagli interventi di tutela e gestione delle risorse come le Aree Marine Protette (AMP), le Zone di Tutela Biologica (ZTB) ed i Siti di Interesse Comunitario (SIC). Peraltro, sul fonte della nuova corsa alle trivellazioni, fervono le iniziative al Ministero dello Sviluppo Economico per coinvolgere gli attori di tutti i settori interessati da una gestione positiva e produttiva delle royalties. Sollecitiamo il nostro Ministero a non sottovalutare questa occasione, anche attraverso una partecipazione attiva ai tavoli.

Sono denunce pesanti. Possibile che non ci sia nessun segnale positivo?
L’unico dato che porta il segno più è l’aumento dei costi di produzione che, per lo strascico, tocca la vetta del +270%. Gli approvvigionamenti energetici continuano a rappresentare oneri assai pesanti, con conseguenze immaginabili sulla tenuta della redditività di impresa, insieme alle difficoltà legate alla stagnazione dei consumi e all’aumento del prelievo contributivo legato alla gestione degli oneri sociali, previdenziali e assistenziali.

Non sarà certo la cifra che lei sperava, ma certo è che la Legge di Stabilità 2015 in tabella C ha stanziato per la pesca 3,7 milioni di euro per quest’anno.
Si. Lei ha perfettamente ragione. Tutti eravamo convinti che la situazione stesse in questo modo. Ma purtroppo la notizia, inaspettata quanto spiacevole, è che le cose non stanno così. Ad un approfondimento tecnico-contabile abbiamo appurato che da una parte è stato dato, da un’altra è stato tolto. In Tabella C figurano i 3,7 milioni cui Lei si riferisce, ma l’Allegato 5, leggi tagli alle imprese, applica sconcertanti decurtazioni, di fatto azzerando le spese per investimenti e riducendo di un milione di euro le dotazioni per le spese correnti. A conti fatti, tenendo conto anche delle spese di funzionamento della Direzione generale, per il 2015 l’intero settore della pesca ha a disposizione una cifra che si aggira su 1,6 milioni di euro. Questo è il dato reale. Ed è un dato che si commenta da solo

Alternative ce ne sono?
Certo che ce ne sono, ma solo a partire dal netto rifiuto di questa visione di un settore “di scarto”. Perchè, volendo vedere l’altra faccia della medaglia, i numeri del IV Rapporto sull’Economia del Mare del CENSIS ci dicono anche che la filiera ittica in Italia, con un contributo di 4,4 miliardi, genera il 15% del PIL delle attività marittime, al pari della cantieristica navale. Con circa 13.000 imbarcazioni, il settore della pesca professionale italiano vanta ancora, dopo la Spagna, la seconda flotta dell’Unione Europea (circa il 16%) con il maggior numero di imbarcati, pari a circa 24.500 pescatori a bordo. Ben al di là dei dati macroeconomici, siamo di fronte ad un settore che rappresenta una valenza strategica per la tenuta del tessuto socio-economico della pressochè intera fascia costiera italiana. A differenza delle flotte ad elevato impiego di capitale che operano nel Mar Baltico e nella fascia oceanica occidentale, le strutture produttive della pesca italiana ed in genere mediterranea presentano, invece, una elevata incidenza di lavoro impiegato sul tonnellaggio. Inoltre, il valore aggiunto generato per posto di lavoro è superiore non soltanto a quello del settore agricolo, ma anche a quello del settore industriale: nel settore pesca comunitario si stima che per ogni posto di lavoro in mare esistano in media, circa 3 posti di lavoro collegati a terra. È grazie a questo ‘effetto moltiplicatore’ sull’indotto che l’economia ittica è in grado di contribuire all’occupazione per circa 106.000 addetti complessivi (8.700 nel settore dell’acquacoltura, 6.500 nella trasformazione, 17.500 in attività dirette, 2.300 nella cantieristica, e 46.000 nelle altre attività, commercializzazione, distribuzione, etc.). Attività, dirette ed indirette, che assumono particolare rilievo laddove, specialmente nelle aree meridionali del Paese, mancano concrete alternative occupazionali o imprenditoriali.

Ma non è sufficiente che per il periodo 2014-2020 le imprese potranno usufruire di circa un miliardo di euro del fondo per gli affari marittimi e pesca, il Feamp?
Si tratta certamente di contributi robusti che pero’, da soli, non saranno in grado di far uscire il comparto italiano della pesca dalla profonda emergenza in cui si dibatte da anni. Sarà necessario negoziare e mediare tra gli interessi di tutti i 28 paesi della UE e tutti sappiamo che la politica della pesca comunitaria è tradizionalmente strabica verso la realtà peschereccia dei mari del Nord. La pesca del Mediterraneo, che si caratterizza al 70% di piccola pesca costiera artigianale, di pesca multispecifica, debole strutturalmente per bassa capitalizzazione e patrimonializzazione e per la difficoltà di accesso al credito, per i funzionari europei continua ad essere ancora poco conosciuta. Non è un caso se la ex commissaria della pesca Maria Damanaki, nel settembre 2010 ha dichiarato che “nonostante l’ispezione di migliaia di chilometri quadrati dei fondali marittimi, conosciamo più la superficie della luna che il fondale del Mediterraneo”.

Oltre alle critiche c’e’ anche una parte construens?
Per noi e’ chiaro che non ci puo’ essere capacita’ di spesa dei fondi UE senza una strategia e una programmazione forte sul piano nazionale. Da sola e con tutti questi vincoli e ritardi, la dotazione di circa miliardo di euro in arrivo con il FEAMP non e’ certo in grado di assicurare alla filiera ittica italiana l’uscita della emergenza.
di Letizia Martirano, Agrapress
(19 gennaio 2015) (riproduzione riservata)
Foto: Archivio Slow Food evento live

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