venerdì 31 luglio 2015

la nostra Grecia

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Il Mezzogiorno, la nostra Grecia

Pubblicato: Aggiornato: 
ITALIAN OLD WOMAN
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"Abbiamo preso il Mezzogiorno", ha detto qualcuno, all'indomani delle ultime regionali, dalle parti del Pd. "Bene, e ora che ci fai?", veniva da rispondere. Che ci fai, di questa grande Grecia domestica? Non ha funzionato quell'esorcismo, ripetuto negli anni scorsi e purtroppo, nei fatti, anche nelle ultime settimane drammatiche tra Atene e Bruxelles: "Noi non siamo la Grecia"... Anzi, questa bestemmia - che rivelava la rimozione psicologica, prima che politica, del nostro Mezzogiorno - si è risolta nel suo esatto contrario: mezza Italia è diventata la nostra Grecia, due volte la Grecia.
È questa l'immagine del Sud che emerge dalle anticipazioni del Rapporto della Svimez. Tornerà, abbastanza rituale, per qualche giorno la discussione sul Mezzogiorno. Qualche commento troverà spazio, nella penuria agostana, pure sulle pagine dei grandi giornali: trascinando luoghi comuni, avvitandosi nelle contrapposizioni ideologiche di sempre, risalendo col bignamino di storia da Garibaldi fino al medioevo. Si sprecheranno anche stavolta le dottissime interpretazioni. Però restano i numeri, tanto crudi quanto le vite che raccontano, di una vicenda che ci vede testimoni.
Sono gli "argomenti testardi" che ci restituisce una crisi lunga come una guerra, che al Sud non ha conosciuto tregua, e il lento stagnante declino che l'aveva preceduta. Se negli ultimi sette anni il Mezzogiorno perde oltre 13 punti di Pil - un'enormità che non ha paragoni in Europa, eccetto la Grecia, appunto - e 600 mila posti di lavoro, un decimo dei suoi occupati, soprattutto giovani e qualificati, è la prospettiva di più lungo periodo che ci dà un'idea della deriva: rispetto al 2001 l'Europa cresce di 18 punti di Pil, l'Eurozona di 13,6, mentre l'Italia ne perde 1, facendo meglio solo della Grecia che, con tutta la sua crisi, ne perde 1,7. Il Mezzogiorno, in questi quattordici anni, invece, ne perde quasi 9,4.
È così che si arriva a un divario di sviluppo (il Pil pro capite è al Sud il 53% di quello del Nord) ai livelli del secondo dopoguerra. Lo spauracchio della secessione minacciata non ci ha fatto vedere reale, largamente avvenuta. Anche nella crisi, tutta questa disuguaglianza territoriale, che raccoglie e moltiplica le crescenti disuguaglianze sociali, è stata sottovalutata per il complessivo andamento negativo dell'Italia, in cui il Sud "andava un po' peggio, come sempre". Solo che questo "un po' peggio" è arrivato a un punto di rottura, senza paragoni in Europa.
Quando lavora solo un giovane su quattro (il 26,6% tra i 15 e i 34 anni, in Grecia il 38,1%, in Spagna il 44,6), e solo una giovane donna su cinque (20,8%), quando quattro giovani su dieci sono fuori dal mercato del lavoro e dai circuiti formativi (i famigerati neet in Grecia invece il 29,5% e in Spagna il 22,4), quando gli individui a rischio povertà raggiungono e superano in Campania e in Sicilia il 40%, vuol dire che non si tratta più di una "congiuntura negativa", ma di una trasformazione strutturale che dagli elementi di carattere economico (per la perdita senza precedenti di produttività) passa ai comportamenti sociali e infine alla demografia, il vero specchio che ci dice del futuro di una società.
E qui - tra emigrazioni specie di giovani e donne qualificati, mancata capacità di attrarre talenti (o, perché no?, di tirarli fuori dagli universi concentrazionari dei nostri "centri immigrati"), crollo delle nascite (siamo al livello più basso dal 1862) - il futuro che si prevede è un Sud sempre più povero e più vecchio, che perderà 4 milioni di giovani nei prossimi cinquant'anni, e dunque un divario sempre meno sostenibile, tanto più in un'Italia e in un'Europa sulla cui solidarietà si può fare sempre meno affidamento.
Se non scoppia la rivolta (le rivolte sono già scoppiate, tante, troppe, troppo spesso ignorate), è perché molti hanno già abbandonato: i "salvati", perché poi ci sono "i sommersi", divisi tra rassegnazione, lavoro nero, ricatto delle mafie, che da questa spirale di arretramento sono le uniche a uscirne rafforzate. Certo, ci sono le eccezioni, gli eroi, quelli che ce la fanno: ogni inferno ha i suoi angoli di paradiso, possono non esservene fra 20 milioni di abitanti?
"Il Sud è irredimibile...", si adageranno molti commentatori: e giù il solito pianto antico sui vizi pubblici e privati, il familismo, lo scirocco... "Sono numeri che gettano nello sconforto, basta", rimprovereranno gli ottimisti per partito (o posto di sottogoverno) preso. "Ma allora non c'è niente da fare?", diranno i più? L'immagine di un Sud affamato può dar luogo al piagnisteo se non è accompagnato da una visione, da un progetto. Se ci fossero, invece, come potrebbero e dovrebbero esserci, l'analisi reale muoverebbe ancora di più la volontà, la giusta "fame". Perché non è vero che non c'è niente da fare. Non è vero che non si sa che fare. Si sa cosa non fare, ed è già molto: si sa che l'austerità praticata già prima del Fiscal compact, e che ha portato, ad esempio, alla riduzione in quindici anni del 40% della spesa in conto capitale nel Mezzogiorno, non è la strada da seguire.
Ha senso continuare su questa strada, magari per togliere le tasse sulle case di lusso? O piuttosto non bisogna puntare a rilanciare gli investimenti, nuove politiche industriali, ridare un ruolo a quello Stato la cui unica riforma che servirebbe è di fermare il processo di denigrazione, farlo diventare attrattore di competenze, di progetti, di visione, di missioni. Non è vero che non si sa che fare: istituzioni, intellettuali, centri studi (la stessa Svimez), indicano strade, proposte, con un'analisi realistica delle potenzialità, degli scenari. "Il problema è la politica". Tema antico.
E giù ancora, rispolverando Salvemini o sfogliando qualche nuova letteratura, con un dibattito sempre più avvitato sulla contrapposizione se è "colpa nostra" (dei meridionali, delle nostre classi dirigenti) o è "colpa loro" (dell'Unità d'Italia, gli anni del nordismo, l'Europa, e così via). La verità è che ci sono "nemici interni" e "nemici esterni" del Mezzogiorno. E la critica, anche severa, alle classi dirigenti locali, alle loro inefficienze, collusioni e commistioni improprie, non può diventare un alibi per il mancato impegno di quelle nazionali, ché hanno le stesse responsabilità, anzi la responsabilità ultima, nel tenere unito un Paese. La questione meridionale non può essere derubricata a questione tra meridionali. E anzi, è stato proprio questo il suo declino: quando si sono spente le voci del Sud che sapevano parlare all'Italia, quando non c'è più stato un valtellinese che facesse del meridionalismo la sua scelta di vita.
Serve un progetto, e non serve solo al Mezzogiorno. Perché se non è vero che il Nord è entrato in crisi per colpa del Sud (se il Mezzogiorno è la Grecia, il Nord da tempo non è più la Baviera...) è vero che la spirale recessiva del Sud rischia di rendere fragile la possibile ripresa del resto del Paese. E serve un disegno a partire dall'Europa, in cui aver preso le distanze da Atene, o aver contribuito nei fatti a quell'accordo "capestro", non è stata una sconfitta per Tsipras, ma anche per noi, sancendo un'irriformabilità dell'Eurozona che oggi alimenta asimmetrie e squilibri, e che possa esistere un governo dell'Euro che non voglia dire austerità. Perché la Grecia non è mai stata soltanto la Grecia. È anche questa pezzo d'Italia, con cui non sono soltanto comuni i problemi, è soprattutto comune il destino. Perché la questione meridionale è ormai da tempo questione europea. E allora, che fare del Sud? Certo, non aiuta che oggi non vi sia più un Ministro e nemmeno un sottosegretario a occuparsi di Mezzogiorno. Ma ciò che soprattutto sembra mancare è la consapevolezza della posta in gioco, e del poco tempo che ci resta. Perché pure quando hai preso il Mezzogiorno, poi, puoi rischiare di guardarti tra le mani e di non trovare niente.

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