mercoledì 29 luglio 2015

le politiche urbane di Roma possono cambiare?

Neppure nelle politiche urbane tutto va male

di VITTORIO ZINCONE   26 Luglio 2015
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Una brava urbanista, Paola Viganò, e un buon episodio di progettazione urbana, mediante una procedura corretta. Intervista a risposte intelligenti e spesso condivisibili: con una contraddizione (TAV) e uno scivolone (art. 9).  Corriere della Sera, suppl. «Sette»  24 luglio 2015


A un certo punto le soffio addosso il venticello malizioso che circola tra alcuni suoi colleghi sul perché abbia vinto il concorso per ridisegnare il quartiere Flaminio, a Roma: la presidentessa della Giuria era un’allieva del suo ex socio Bernardo Secchi, archistar dell’urbanistica italiana, venuto a mancare nel settembre 2014. Lei replica: «Il tempo e la storia ci diranno se è così». Il tono è decisamente indifferente. Tipo: «Non ragioniam di lor, ma guarda e passa». Poi, dopo una pausa, mette una pietra tombale sulla polemica: «Lo sa che sono l’unica donna e l’unica non francese ad aver vinto il Grand Prix de l’Urbanisme?».

Paola Viganò, 54 anni, urbanista e professoressa allo Iuav di Venezia e all’Epfl di Losanna, è portatrice fiera di piani regolatori e di progetti territoriali, di piazze e di parchi. Dice: «Progettare spazi produce conoscenza. Rivendico un ruolo sociale e intellettuale per gli urbanisti e per gli architetti».

Nella Roma devastata da Mafia Capitale e affetta da degrado debordante, la notizia che a pochi passi dal centro storico qualcuno abbia ideato un piano, approvato dall’amministrazione, per sostituire cinque ettari di caserme con abitazioni, case popolari, giardini, negozi e uno spazio museale, è passata quasi inosservata, tra il legittimo scetticismo di chi ha visto tanti disegni i mai edificati e chi pensa che il sindaco Marino non resti in Campidoglio più di tanto. «I proprietari dell’area (cioè Cassa Depositi e Prestiti) e la città di Roma sembrano determinati. Certo, potrebbero insorgere le tradizionali complicazioni italiane». Complicazioni. Partiamo da qui.

In Italia si progetta molto, si realizza poco e quando si costruisce spesso lo si fa in modo non legale: appalti truccati, mazzette, infiltrazioni mafiose…
«Negli anni Novanta con Bernardo Secchi abbiamo lavorato per ridisegnare alcune città italiane: Prato, Pesaro, Brescia. Luoghi simbolo del made in Italy che si evolvevano e avevano bisogno di una maggiore qualità dello spazio pubblico e di nuove infrastrutture. Quei piani hanno vissuto storie drammatiche».

Non sono mai stati realizzati?
«Mai, o in modi contorti. A causa di veti campanilistici o di bassissime strategie politiche. Alla fine abbiamo concluso che in Italia non c’era speranza. E che non esistevano le condizioni di dignità per andare avanti. Abbiamo cominciato a lavorare soprattutto nelle Fiandre. Lì, come in altre parti d’Europa, si affronta il futuro».

In Italia si ha paura del futuro?
«Sì. Da noi non c’è una classe politica all’altezza. Non c’è una classe dirigente che voglia costruire il futuro. In Nord Europa, oggi, fioriscono studi sull’invecchiamento della popolazione e su come affrontarlo. Noi italiani, che siamo più vecchi di loro, non ci poniamo nemmeno il problema di come riprogettare il Paese e le città. Ci sono grandi questioni di lungo periodo su cui si dovrebbe riflettere a fondo: i cambiamenti climatici, l’invecchiamento della popolazione, le migrazioni, la crisi e i nuovi lavori. Secchi nel suo ultimo libro lo dice chiaramente: “Emerge con forza una nuova questione urbana”».

Se potesse bisbigliare a Renzi un suggerimento…
«Si concentri su questi temi e ridia voce a chi si occupa del progetto della città e del territorio. Non siamo privi di senno e siamo ascoltati in tutta Europa. In Italia c’è una tradizione nobilissima di urbanisti».

Gli urbanisti in Italia hanno creato anche sfaceli: Scampia, lo Zen, il Corviale… Palazzi/quartiere in cui è cresciuto solo il degrado.
«Non dica così. In Francia le periferie sono in condizioni ben peggiori. Le zone che lei ha citato sono monumenti a un pensiero. Se li accettiamo come tali, restauriamoli. Se invece davvero non riconosciamo loro, collettivamente, alcun valore e se gli abitanti sono d’accordo, abbattiamoli. Ma ricordiamoci che è la concentrazione del disagio e della povertà a creare i problemi, non l’architettura».
Non è che con il Progetto Flaminio realizzerete un mostro che fra trent’anni avremo tutti voglia di abbattere? C’è chi protesta perché ci sono troppi metri quadri abitativi e perché alcuni palazzi sono troppo alti…
«Le altezze sono quelle che troviamo in questa parte di Roma. I metri quadri sono quelli richiesti e non sono incoerenti. Cassa Depositi e Prestiti, dopo aver visto i disegni, ci ha pure chiesto se li avevamo messi tutti, perché il progetto mantiene una certa leggerezza: abbiamo aumentato gli spazi pubblici, oltre ad aver accolto l’atlante botanico suggerito dalla cittadinanza e conservato alcuni segni e la memoria di quel che c’era prima. Piuttosto, vorrei avere rassicurazioni sul fatto che il piano verrà rispettato».
C’è già chi sostiene che la Città della Scienza non verrà mai realizzata. Per assenza di soldi, di volontà politica, di utilità…
«Nella nostra relazione noi abbiamo scritto “Città della Scienza o un’attrezzatura metropolitana analoga…”. A Roma non si sente la necessità pressante di costruire una Città della Scienza. Magari sarebbe più utile uno spazio che completi il Maxxi, il Museo delle Arti del XXI secolo. Credo che alla fine saranno lo spazio, la galleria esistente e le grandi luci libere a generare ipotesi per una loro funzione e utilità. Succede spesso. Quel che eviterei, e che invece è previsto, è la costruzione di un grande parcheggio sotterraneo».

Non potrebbe essere utile? In una città come Roma…
«A Roma, come in tutta Italia, dovremmo ripensare i trasporti pubblici: far funzionare l’Alta velocità, riutilizzare alcune tratte su rotaia dismesse».

Lei è Pro Tav o No Tav?
«Uso l’Alta velocità, ma non amo questo tipo di domande. E non ho una conoscenza adeguata della situazione per parlarne».

Expottimista o Exposcettica?
«Le cose sono più complicate. Expo2015 è stata costruita in un’area che, a differenza di altre zone disponibili della città, come Rogoredo, non era urbanizzata. Così si sono costruiti svincoli, strade e infrastrutture che hanno frammentato ancora di più il territorio. Un errore grande. Puro spirito speculativo. Chi ci va dice: “Carino”. E sì, si è risvegliato qualche interesse nei confronti della città. Ma la qualità degli spazi è quella che è. Ed è imperdonabile aver sacrificato tutto quel terreno agricolo lombardo».

Lei è nata lombarda, ma è cresciuta a Firenze.
«Sono di Sondrio. Mio padre è stato un piccolo imprenditore della pietra con un forte spirito artistico. Sono arrivata a Firenze negli anni Settanta. Da adolescente. I miei genitori, anche per tenermi al riparo dai venti della contestazione, mi misero nel Collegio di Poggio Imperiale, quello dove era stata Maria José…».

… l’ultima regina d’Italia…
«Esatto. Vestivamo con abiti ottocenteschi. Eravamo tagliate fuori dal mondo. È stata un’esperienza molto formativa, da cui sono uscita con una certa robustezza psicologica».

E con la voglia di fare l’urbanista?
«No, amavo disegnare. Il disegno è uno strumento di costruzione del pensiero. Mi iscrissi ad Architettura. Leggendo gli editoriali di Bernardo Secchi sulla rivista Casabella, cominciai ad appassionarmi all’Urbanistica. Conobbi lo stesso Secchi lavorando a un progetto nella periferia di Prato».

I primi lavori…
«Secchi chiedeva ai suoi collaboratori di stare sul campo e di fare i rilievi. Si trattava di camminare ore e ore per capire gli spazi di una città o di un quartiere. Un esercizio lento, durante il quale ci si immerge nelle realtà sociali e si educa lo sguardo a capire la densità dello spazio su cui si deve intervenire. Nel 1990 decidemmo di fondare insieme uno studio. Per 24 anni abbiamo cambiato nome ogni anno. Ora si chiama Studio 015».
A cena col nemico?
«Con Nicolas Sarkozy. Criticabile come politico di destra, ma ha lanciato lo studio su “La grande Parigi”. I successivi governi di sinistra non hanno sostenuto il progetto con lo stesso impegno».

Qual è la scelta che le ha cambiato la vita?
«Iniziare a lavorare con Secchi. Quando mi sono laureata non pensavo che avrei fatto l’urbanista. La vocazione è cresciuta discutendo con lo stesso Secchi le teorie di Giuseppe Samonà sull’unione tra architettura e urbanistica».

Che cosa guarda in tv?
«Ne guardo poca. La Bbc e qualche fiction terribile per scaricare la testa dai pensieri».

Il film preferito?
«Tra i recenti… Mommy del canadese Xavier Dolan».

La canzone?
«Canzone? Ascolto molta musica barocca».

Il libro?
«Ho appena fatto un’immersione nei romanzi del Nobel francese Patrick Modiano».

Lei non è su Twitter.
«Perché non mi piace quest’idea di comunicazione totale».

Sa quanto costa un pacco di pasta?
«Un euro o poco più».

Conosce i confini di Israele?
«Ci sono stata recentemente. Ho trovato scioccante che i miei colleghi architetti e urbanisti a tavola parlassero amabilmente di armi».

L’articolo 9 della Costituzione?
«Non lo ricordo in questo momento, mi aiuti».

Dice che la Repubblica sviluppa la cultura e tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico.
«È chiaro che ciò non accade. E quindi c’è molto lavoro da fare».

nota

A differenza del solito il titolo è nostro. Non abbiamo trovato a Venezia il settimanale Sette.

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