Due grandi macrosegni affiorano prepotenti sulla scena. Croci di legno cristologiche e scale per salire sulle nuvole a riempire ed imbrattare il Cortile del Maschio. Già, maschi, uomini, ragazzi, giovani che rispettano il codice, il pregiudizio, lo stereotipo e i canoni di muscoli in evidenza e tatuaggi ad ornare cicatrici e sguardi torvi. Sono i detenuti, con lunghe pene da scontare, che da trent’anni il regista napoletano Armando Punzo ha trasformato, fondando la Compagnia della Fortezza, in veri e propri attori. L’idea che ultimamente portano avanti, Punzo e Cinzia De Felice, è quella di creare, proposta provocatoria ma fino ad un certo punto, qui in un carcere di massima sicurezza, un Teatro Stabile.
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Quest’anno l’evento clou del festival “VolterraTeatro” si svolge all’esterno e non, come eravamo abituati nelle ultime edizioni, dentro le pieghe e i corridoi-budelli che portano alle varie celle dei reclusi dove prendevano vita quadri e scene in loop continuo. Qui si torna al teatro, se vogliamo nella sua versione classica. Un’arena che si fa palcoscenico per ammirare ed applaudire chi di consensi, battimani ed elogi ne ha ricevuti ben pochi nella sua vita fuori da queste mura alte, da queste sbarre spesse e oggi roventi. Punzo torna a Shakespeare e lo fa con questa miscellanea “Known Well” (poteva essere anche Will, utilizzando il diminutivo di William, il nome del Bardo) che prende in prestito frasi e coniuga le trentanove tragedie del genio seicentesco di Stratford upon Avon in un unico ammasso di parole che si asfaltano in una lingua che taglia, incolla unendo personaggi e icone. Tutti insieme appassionatamente.
Il punto non è cercare la citazione in questi lampi e flash, o riuscire a scovare, come in una grande caccia al tesoro, da dove derivi quel verso, da quale commedia sia tratto quel virgolettato. E’ un esercizio inutile, dobbiamo concentrarci sull’insieme, sulla composita marmellata densa di cifre e segnali, di frontiere forate e di limiti che per osmosi trovano corrispondenze e risposte. Dicevamo: croci e scale. Siamo, stiamo, in quel limbo a metà strada, in quell’intercapedine tra il Paradiso, dove la scala (simbolo anche della città di Verona, ovvero di “Romeo e Giulietta”) con i suoi gradini verticali conduce, e la croce, ben piantata per terra, nella linfa della carne di Gea, affondata con il suo acuminato uncino sul fondale e nelle viscere del sottosuolo. Uomini come peccatori che si agitano sul sangue, sulla vendetta, sul potere e sulla morte, sul conflitto e gli inganni, sulla battaglia e la superbia, sull’arroganza e sulla violenza.
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Punzo, in versione qui silente e kantoriana, si aggira sulla grande scena, dove campeggia il letto di Desdemona, e Ofeliapiange intorno, e un’armatura dal “Giulio Cesare” gratta strusciando il pavimento grezzo, e Otello con il suo collare a forma di libro decanta le sue ragioni, e fa da contraltare, abbracciandoli, da specchio, alle altre figure. Si mischiano i dialetti, specialmente del Sud, con la cadenza russa (il monologo di Ivan su una scala appeso il mezzo al cielo è penetrante) o quella araba, albanese o slava, con inflessioni francesi o dell’Est Europa in un esperanto che amplifica il significato profondo, il succo strizzato della parabola che di fondo passa tra le righe che Shakespeare seppe mettere nero su bianco. Lì sta tutto l’essere umano con i suoi limiti e difetti, imperfezioni e tradimenti, cadute e scivoloni, debolezze e nefandezze.
Non riusciamo, come non ci riescono i paladini shakespeariani(trentacinque saranno alla fine le figure che calcano il Cortile), ad uscire dalle pastoie, dalle sabbie mobili fangose dei nostri piccoli sommovimenti squallidi terreni e presenti e solo l’apparizione di un bambino, con la sua ingenuità e purezza, i suoi movimenti leggeri e candidi, imbarazzato e pulito, porta e sopporta, una palla pesante, la briciola della formica o il Globo sulla schiena di Atlante. Siamo macchine inutili, come quelle che progettavano gli amici patafisici diAlfred Jarry, sbagliati e bisognosi d’amore, che hanno, in ugual misura, accesso all’Inferno come all’Empireo. Chiamalo “libero arbitrio”.
Volterra