domenica 27 settembre 2015

ciao Pietro:muore Ingrao con tutte le sue contraddizioni e pregi


Pietro Ingrao, morto a Roma lo storico dirigente del Pci. Aveva 100 anni (FOTO)

Pubblicato: Aggiornato: 
INGRAO
Stampa
E' morto a Roma Pietro Ingrao, storico dirigente del Pci e presidente della Camera. Aveva compiuto 100 anni a marzo. Anche Matteo Renzi in una nota ha salutato il compagno Ingrao. "Con Pietro Ingrao scompare uno dei protagonisti della storia della sinistra italiana. A tutti noi mancherà la sua passione, la sua sobrietà il suo sguardo, la sua inquietudine che ne hanno fatto uno dei testimoni più scomodi e lucidi del novecento, della sinistra, del nostro Paese".
Vi riproponiamo questo ritratto di Mario Lavia scritto proprio per l'occasione dei suoi 100 anni:
ingrao
(illustrazione di Massimo Jatosti)
Ci sono due parole, così distanti, che nel vocabolario di Pietro Ingrao hanno un posto particolare. Sono "luna" e "barricata". La prima è bellissima, l'altra ruvida. Perché c'è un polo buono, umanissimo, perfino sognante ma ce n'è anche uno duro, aspro, meno noto nell'uomo che arriva alla fantastica età dei cento anni – altro che "secolo breve" – e che nella dolcezza di un lungo crepuscolo vede acquietarsi i tumulti di una vita non comune. Anzi, fantastica.
C'era un periodo in cui Ingrao diceva sempre (questa cosa di ripetere le stesse frasi è un po' un suo tic) di essere considerato un "acchiappanuvole", naturalmente negandolo ma sapendo in cuor suo che almeno in parte era così. Ingrao il sognatore, l'utopista. Il rivoluzionario di professione che, giovanissimo, si imbarca nella durezza della cospirazione antifascista all'ombra del Partito e della sua ideologia alla ricerca di qualcosa di eroico. Un tratto alla Stendhal più che alla Lenin. Gli rimane anche dopo, ormai dirigente di primo piano, questa ansia di andare un po' oltre il vissuto delle interminabili riunioni e delle inestricabili controversie, e molto oltre l'orizzonte della politica, perfino della bella politica delle amate piazze, oltre anche i misteriosi riti delle Botteghe Oscure e delle stanze sudate dell'Unità di quei tempi là. Oltre la realtà quotidiana: ed ecco il cinema, i libri, l'arte.
Pubblicò anche un libro di poesie molto montaliane (E muto / ogni volta / tendo la mano / Come se tu / sventura / fossi la vita). Ed è facile pensare che fosse proprio questa carica utopistica a reggere il peso di una vicenda personale e politica complicata assai. Lo sa lui per primo, lo ha scritto mille volte: una storia politica di errori e sconfitte, di dissensi e minorità.
La "luna" di Ingrao è qualcosa che lui stesso nella accorata autobiografia (sì, riuscì a scrivere un libro accorato su di sé, "Volevo la luna", appunto) non chiarisce bene cosa sia: non era più un comunismo che – era evidente – non si poteva realizzare, ma non era neppure l'indicazione precisa di cosa diamine potesse essere una democrazia tanto avanzata al punto di "superare" uno stato socialdemocratico di tipo europeo.
E dunque la vera sconfitta di Ingrao sta proprio nella insufficiente concretezza del modello da costruire. L'ingraismo, frutto succoso della vicenda della sinistra italiana, era votato alla sconfitta innanzi tutto per la sconnessione con l'evoluzione reale di una società italiana che a metà degli anni Sessanta, quando Ingrao scende in campo per spostare a sinistra l'asse ideologico e politico del Pci contro la destra di Amendola, si è ormai assestata nel letto di un capitalismo difettoso assai ma in grado di assicurare occupazione e salari.
Pensò di diventare il segretario del Pci, Ingrao, nel dopo-Togliatti? Amendola certamente lo sospettava, ed è anche per questo che contro di lui, nel '64, fu durissimo. Quantomeno, Ingrao pensava di vincere la battaglia per chi fosse riuscito a condizionare un mite Longo, il segretario scelto dopo la morte del Migliore. Fu battuto ma riuscì a restare al vertice del partito, mentre i suoi venivano dispersi (e molti si lamentavano che il capo non muovesse un dito per difenderli). Perché non si deve pensare che lui non fosse – legittimamente – ambizioso. Come tutti gli uomini politici. E poi è vero che aveva, allora e dopo, un enorme consenso alla base. Ci fossero state le primarie, per dire, avrebbe vinto. Quando parlò in quel congresso dello scontro con Amendola "tutta quella massa di compagni – ha ricordato lui stesso – scattò in piedi nell'applauso, e furono per me minuti indimenticabili".
Come un grande attore, effettivamente Ingrao incantava l'uditorio. E lui era attentissimo a creare l'atmosfera giusta, fin nei particolari, come fossero disposte le sedie, dove la tribuna, chi parla prima... Di calore, aveva bisogno. Gli piaceva essere amato, dalla base dei quartieri popolari e delle campagne umbre e dagli intellettuali marxisti di mezza Europa. E forse anche essere un perdente di successo.
Nell'immaginario prevale l'immagine bonaria del presidente della camera che passeggia fra le dune di Sabaudia, il vecchio patriarca a capotavola nella sua Lenola con familiari e famigli, decine di persone appese alle sue parole. Tutto vero. Ma era anche un duro, Ingrao. Un antistalinista, certo, ma pur sempre cresciuto a quella scuola, una scuola che certi segni li lascia, indelebili. Un eretico, sì, e tuttavia la Chiesa era quella, c'è poco da fare. È stato anche detestato, e certo con un Pajetta (si disse che ci fu anche qualche rivalità in campo sentimentale, parliamo dei primi anni Cinquanta) il rapporto non fu sereno, tanto meno con i "destri", e con Berlinguer o Napolitano al massimo c'era cortesia, certo non simpatia, specie col secondo.
Con i non-ingraiani non era scioltissimo. Un duro che scelse di stare da una precisa parte della "barricata" – il titolo del suo famoso articolo sull'Unità dell'ottobre del '56 – quella dei carri armati sovietici che calpestavano la libertà e la dignità di Budapest, la prima grande verifica di come fosse impossibile riformare il comunismo. Allora bisognava capire, allora bisognava agire: quanto rimpianse, in seguito, di non aver fatto né l'una né l'altra cosa, "fu il mio errore più grande". Ecco, la "barricata" è la metafora di un errore che a sua volta era il simbolo del limite vero della vicenda del Pci: i dirigenti capivano che questa storia dell'Urss era inaccettabile eppure ne decretarono "l'esaurimento della spinta propulsiva" nientemeno che nel 1981, 25 anni dopo Budapest, 13 dopo Praga. "Avevamo paura di perdere il partito...", ha scritto qualche tempo fa Alfredo Reichlin.
E poi, cosa forse ancor meno spiegabile (se non con l'antico riflesso condizionato dell'obbedienza alla chiesa) Ingrao scelse un altro lato sbagliato della barricata nel 1969, quando il comitato centrale del Pci decise di radiare il gruppo del Manifesto, cioè – diciamo così – il distillato più avanzato dell'ingraismo, Rossanda, Pintor, Magri, Castellina, Natoli, gente che era veramente sua amica e che lui non difese, non solo, ma alzò la mano per il voto a favore che contribuì a cacciare dal partito. Alcuni ingraiani votarono contro o si astennero (fra cui il cognato di Ingrao, Lucio Lombardo Radice). Ma lui, il capo, no. Quelli non lo dimenticarono mai.
E quando un giorno, tanti anni dopo, in una riunione il vecchio Pietro provò a spiegare a quelli del Manifesto "la linea" da seguire, Pintor con la durezza che si poteva permettere lo mise al suo posto: non siamo più i tuoi figliocci. Piano piano gli ingraiani si dissolsero. Si emanciparono. Achille Occhetto, ex giovane pupillo, sciolse il Pci e lui – una vita in dissenso, l'eretico per eccellenza, l'uomo che voleva andare oltre – paradossalmente divenne il capo del "fronte del No" accanto a persone non certo affini, come Cossutta, mentre gente come i "suoi" Reichlin o Bassolino non lo seguirono.
Nelle riunioni del "fronte del No", specie nei primi mesi dopo la Bolognina, era molto molto severo con i suoi compagni anti-svolta, aveva rimesso i panni del dirigente comunista, bisogna fare così bisogna fare colà... Era di nuovo il leader-ombra, pareva rinato. Nell'inverno del '90 pensava di vincerla, la battaglia per "salvare" il Pci, un nuovo Pci beninteso ma pur sempre Pci con il simbolo che da decenni nelle piazze chiedeva di barrare, "falce martello e stella". Ma l'illusione durò poco, la "Cosa" era più forte. L'ultima sconfitta. Ci restò per un po' nel Pds, ma non era più il suo mondo, la sua casa, la sua croce e la sua delizia, tutto cambiava. Uscì da quel partito – non capiva Occhetto, diffidava di D'Alema, su questo era d'accordo col vecchio Natta – seguì per poco tempo Rifondazione comunista che, pur vista con simpatia, non poteva essere il lato giusto della barricata né tanto meno, assomigliare alla luna. Che dopo cento anni Pietro Ingrao può ammirare ancora, lì, fra le nuvole.

Nessun commento:

Posta un commento