lunedì 28 settembre 2015

fabbrica dei saponi:un caso di autogestione


L’autogestione della fabbrica dei saponi

by Riccardo
La storia di Vio.Me è un raggio di sole nell’inverno senza fine che la Grecia sta attraversando. Il padrone ha chiuso questa fabbrica di materiali da costruzione, ma i lavoratori hanno deciso di occuparla e di lanciare una produzione ecologica in autogestione grazie a un enorme sostegno popolare
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Dimitris mostra i prodotti della fabbrica greca recuperata Vio.Me
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di Emmanuel Daniel, Pressenza
A nord di Salonicco, una vasta area commerciale sta gradualmente guadagnando terreno su quello che era, fino a poco tempo fa, un’area industriale. Nel mezzo di questo oceano consumistico, nascosta dietro un viale di grandi alberi, una fabbrica polverosa sta a ricordare che qui, poco tempo fa, si potevano incrociare operai in tuta al posto di clienti coi loro carrelli. Il posto sembra abbandonato, tutte le entrate sigillate e un’unica auto è ferma nell’ampio parcheggio. Eppure, da uno degli edifici, dietro un muro di vecchia lamiera, rumori sordi vengono a volte a rompere il silenzio.
Per entrare nella fabbrica bisogna farsi annunciare. Il posto è sorvegliato 24 ore al giorno da lavoratori e da sostenitori locali. E a buon titolo: i lavoratori di Vio.Me occupano illegalmente i locali dal 2011, da quando cioè i proprietari hanno deciso di interrompere bruscamente l’attività.
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Vista dal tetto della fabbrica. Dietro i grandi alberi inizia l’enorme area commerciale
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Disobbedienza alle leggi del mercato
La storia sarebbe potuta finire come tante altre in Grecia negli ultimi anni. Una società (in questo caso, Filgeram-Johnson, casa-madre di Vio.Me) decide di chiudere i battenti e di non pagare i salari arretrati dovuti alla cinquantina di lavoratori all’epoca impiegati. Solo che questi ultimi hanno deciso di disubbidire alle leggi del mercato. Per un anno una trentina di operai sindacalizzati occupano la fabbrica per impedire ai proprietari di recuperare i macchinari. Il primo anno, possono contare sulla loro misera indennità di disoccupazione per sopravvivere. Poi, man mano che la copertura mediatica della loro lotta va avanti, aumenta il sostegno, dapprima locale poi internazionale, che si fa carico delle necessità economiche e alimentari di questi lavoratori in lotta. In seguito a molte assemblee generali, i lavoratori e i loro sostenitori decidono di riprendere la produzione.
Ma anziché colla per piastrelle, la precedente specialità della fabbrica, optano per la produzione di sapone e vari prodotti per la casa naturali. Questo dietro-front ecologico non era affatto ovvio, soprattutto in Grecia dove questa sensibilità non è delle più sviluppate. Se i lavoratori di Vio.Me sono diventati ambientalisti, è’ stato per necessità e pragmatismo. “Sapevamo di non poter portare avanti la stessa cosa di prima, perché avevamo pochi soldi, mentre le macchine sono costose e la materia prima importata. Allora abbiamo cercato una materia prima a buon mercato e locale. E noi qui abbiamo molto olio!", spiega Tinna, arrivata con la ripresa della produzione. Poi, c’è stato anche il supporto locale che li ha convinti a lanciarsi nel settore dei prodotti ecologici, più suscettibili di essere venduti nelle reti militanti.
Nessun bisogno di padroni
Un altro cambiamento di una certa importanza è intervenuto dopo la riapertura: la loro fabbrica, hanno deciso di gestirla senza un capo. Quando chiedo a Dimitris, uno dei pilastri della lotta, che si agita sulla sua sedia in attesa che gli traducano le domande, perché hanno deciso di organizzarsi in questo modo, mi risponde, con il tono di chi dice una cosa ovvia: “Il padrone è andato via, perché cercarsene un altro?. Io l’ho visto due volte in due anni. Non abbiamo bisogno di lui per servirci di macchine che noi usano ogni giorno”. Ma riconosce che passare da un’organizzazione gerarchicizzata, nella quale le attività sono assegnate, alla situazione estrema dell’autogestione “non è stato facile. D’altra parte, non lo è tuttora. Ma abbiamo imparato a conoscerci meglio. L’io è diventato noi. Non c’è l’autorità da una parte e noi [i lavoratori] dall’altra, come prima, ma solo noi con lo stesso livello di autorità.”
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Saponi appena versati negli stampi e in attesa di seccare
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Tinna è seduta al suo fianco su una delle sedie di plastica sistemate in cerchio per ricevere i visitatori del giorno: oltre a me, ci sono giornalisti giapponesi, documentaristi spagnoli e greci, viaggiatori francesi. Ci descrive l’organizzazione di Vio.Me: “Ci incontriamo due volte a settimana in assemblea, oltre alle discussioni informali durante il lavoro”. Tutti possono fare tutto, anche se alcuni compiti che richiedono competenze specialistiche sono assegnate singolarmente. “Poiché io parlo inglese, sono io ad occuparmi delle relazioni con i giornalisti e del sostegno internazionale” dice. Oggi, ci sono quasi più visitatori che lavoratori e la fabbrica, vuota come un seggio elettorale il giorno delle europee, dà l’impressione di girare al minimo. Ai membri della cooperativa piacerebbe vedere il loro posto di lavoro di nuovo fiorente come per il passato. “Potremmo essere in cinquanta a lavorare qui. Anzi, dovremmo essere in cinquanta. Tutti vorremmo crescere e utilizzare a pieno le potenzialità della fabbrica” si spinge a dire Dimitris. Tuttavia, diversi elementi rendono difficile tale potenziamento. Prima di tutto, la situazione economica in Grecia, sommata alla loro debole cassa, li porta a reinvestire le magre entrate nell’acquisto di materie prime piuttosto che nell’acquisto di nuovi macchinari. Ma questa limitazione è dovuta anche alla loro modalità di distribuzione. I prodotti ecologici di Vio.Me sono venduti principalmente attraverso la loro rete di solidarietà tra centri sociali, abitazioni occupate e vari collettivi che ordinano interi cartoni di prodotti e si incaricano poi di smerciarli. Il resto viene venduto in occasione di fiere e nel mercatino dei produttori organizzato mensilmente sul posto. “Possiamo crescere solo se troviamo più contatti all’estero. Il prossimo passo è quindi quello di coinvolgere più persone”, dice Tinna.
La fragile fiamma dell’utopia auto-gestionale greca
Vio.Me, questa lotta dei lavoratori fondata su un consistente sostegno popolare, è spesso sventolata come bandiera del movimento delle strutture autogestite in Grecia, movimento che si è sviluppato, si potrebbe dire, attraverso la guerra economica che ha fatto sprofondare il paese nel caos. Tuttavia, sul fronte economico, questa esperienza è fragile. “I salari permettono a malapena di sopravvivere” ci dice Tinna. Tanto più che hanno lavorato molto duramente per riorganizzare la produzione e appropriarsi delle nuove competenze, allo stesso tempo portando avanti un intenso lavoro politico. “Lavoriamo ben oltre le otto ore al giorno. Vio.Me coinvolge gran parte della nostra vita. Ci piacerebbe lavorare meno, ma dobbiamo pensare alla nostra sopravvivenza” racconta, visibilmente provata. In diverse occasioni, durante l’intervista, ha mostrato un certo fastidio e ha risposto alle domande con frasi brevi intervallate da sospiri.
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Cortile interno della fabbrica
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Messaggio di sostegno ai compagni dell’Argentina: “Metà del nostro cuore è a Buenos Aires. Vio.Me sostiene Bauen”
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La giovane donna spiega che non siamo capitati in uno dei momenti migliori. “Scusatemi se sono un po’ stressata, la situazione è tesa in questi giorni”. Stanno affrontando le pressioni sempre più insistenti da parte dei proprietari della fabbrica, che vanno moltiplicando procedimento giudiziari. “Al momento ne abbiamo uno al mese”, afferma. A suo modo di vedere, vogliono recuperare la loro proprietà non già per riavviare la produzione ma per distruggere tutto e vendere la terra a promotori immobiliari a favore di un’ulteriore espansione dell’area commerciale. Un rischio reso plausibile da due sentenze sfavorevoli alla Vio.Me. In pratica, sono passibili di essere espulsi in qualsiasi momento.
Alcuni sostenitori del movimento fanno pressione sul governo per permettere a questa esperienza di autogestione di svilupparsi sotto condizioni favorevoli. Da parte sua, Tinna sostiene di non essere interessata in ciò che accade nella mente dei potenti. “Non si sa cosa vogliano fare. Quello che sappiamo è che la polizia dovrà venire a farci sloggiare. Noi resisteremo e reagiremo”, lancia la giovane donna, riecheggiando lo slogan di Vio.Me: “Occupare, resistere, produrre”.
Anche il comitato di sostegno a Vio.Me si batte per una regolarizzazione del loro status di impresa autogestita, cosa promessa da Tsipras in occasione della sua visita alla fabbrica durante la campagna elettorale. Chiedo ai miei interlocutori, dai visi stanchi quanto i muri della fabbrica, se nonostante le difficoltà il gioco valga la candela. “Anche se non lo credessi, non c’è nessun’altra alternativa”, risponde Tinna dopo un attimo di esitazione, ricordando che la maggior parte dei lavoratori era in primo luogo interessata a mantenere il posto di lavoro in un contesto di disoccupazione di massa. Dimitris, invece, è più netto: “In una parola: sì! Certo che ne vale la pena. Indubbiamente siamo partiti dal bisogno di sopravvivere, ma tutto questo ha a che fare principalmente con la libertàe la lotta di classe”. Rinvigorita dalla risposta del suo compagno di lotta, Tinna rilancia: “Quello che guadagno proviene da quello che produco. Non c’è nessun padrone che trae profitto dal nostro lavoro. Prima ci liberiamo dei padroni, poi ci libereremo dello Stato”. I lavoratori di Vio.Me vorrebbero vedere altri seguire le loro orme sulla strada della rivolta e dell’autogestione. Perciò, moltiplicano gli eventi militanti, accolgono regolarmente visitatori, accompagnano e supportano altri operai nelle loro lotte, in Grecia e altrove. In uno dei capannoni si può vedere un grande poster in spagnolo a sostegno dei compagni dell’Argentina. “Lottiamo non solo per noi”, assicura Dimitris, “ma anche per mostrare agli altri che è possibile”.
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Sala per le assemblee
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Dopo di che ci propone una visita della fabbrica mentre Tinna ritorna al lavoro per gestire alcuni affari urgenti. Quest’uomo robusto ci mostra i loro diversi prodotti, i macchinari a volte creati da loro stessi, ma anche la parte della fabbrica rimasta inutilizzata. Lungo una parete, sacchi di colla ormai scaduta, vestigia dell’attività precedente, sono accuratamente accatastati. In mezzo a questo hangar deserto campeggia un anfiteatro di fortuna, fatto di pallet impilati e illuminato da un pallido alone di luce che filtra attraverso le lastre del tetto.
Dimitris ci spiega che qui tengono le loro riunioni. Racconta con orgoglio, nel suo inglese scolastico, che un gruppo rap locale ha girato una clip sulla loro lotta proprio qui. Poi, con un gesto, ci invita a seguirlo su una lunga scala di ferro che conduce al tetto. Il ballatoio offre una vista mozzafiato sulla valle. Da una parte, la città e quindi la foresta che lascia indovinare il mare. Dall’altra, le ultime fabbriche, progressivamente circondate dalla zona commerciale che si intravvede dietro i grandi alberi. All’inizio dell’incontro, Dimitris paragonava la loro lotta contro il capitalismo alla resistenza del villaggio di Asterix contro i Romani. Da quassù, l’immagine acquista tutto il suo significato. Riaccompagnandoci alla porta, che avrà cura di richiudere dietro di noi, Tinna, ritrovato il sorriso, ci sussurra un messaggio: “Parlate della nostra lotta, ne abbiamo bisogno”.
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Foto: © Emmanuel Daniel/Reporterre. Fonte: Agenzia Pressenza
Traduzione dal francese di Giuseppina Vecchia per Pressenza
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Le fabbriche recuperate sono ovunque una breccia nel muro del capitalismo, in grado di mettere in discussione la relazione tra «padroni» e «lavoratori». E di provocare un corto circuito intorno all'idea tradizionale di lavoro. articoli, documenti, bibliografie, video

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