sabato 31 ottobre 2015

una storia comune di lotta per la casa

Una storia comune. La casa di Majid

by JLC
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di Stefano Gatti
Se le cose fossero andate in un altro modo, vi racconterei questa storia.
Majid è un bravo idraulico, ha una figlia di due anni, e quando la ditta dove lavora fallisce si ritrova per tre notti a dormire in macchina. Si rivolge all’ufficio del Comune di Roma per l’assistenza alloggiativa. Gli viene assegnato un appartamento in una ex-scuola elementare. Lo stabile è stato riqualificato dagli stessi abitanti grazie ad un progetto di auto-costruzione.
A fianco a lui abita Michele, 50enne, ex impiegato. Con i corsi di formazione attivati dalla Regione, per il recupero dell’edificio, ha imparato a fare l’elettricista e ha ricominciato ad essere autosufficiente.
È domenica. Tutti scendono nello spazio comune dove Lucia, danzatrice e studentessa che alloggia nelle residenze temporanee, ha organizzato uno spettacolo con i bambini del dopo-scuola. Nell’edificio risiedono cinquanta famiglie in emergenza abitativa. Durante il periodo di auto-costruzione hanno imparato a conoscersi, a fare insieme: si sono scambiati saperi e abilità. Chi non aveva mai usato un martello ha costruito muri, chi non aveva mai assaporato un couscous ora ne conosce ogni segreto. I lavori hanno portato alla realizzazione di 70 alloggi a norma di legge, tra cui case per studenti e artisti. Tutto questo è stato possibile grazie a corsi di formazione finanziati dall’UE e gestiti dalla Regione in collaborazione con l’Università. Lo stabile comunale, invece di essere svenduto ai privati, ha preso nuova vita. L’investimento iniziale è stato abbondantemente ripagato: il comune, al solo costo dei materiali, si ritrova un edificio, prima in disuso, perfettamente riqualificato. Contemporaneamente ha potuto rispondere alle emergenze dei suoi cittadini.
Giù il sipario.
Majid è ancora in macchina. Accolto in uno stabile occupato, dopo tre mesi ha subito uno sgombero dalle forze dell’ordine. Ora vive in un residence fuori dal Raccordo Anulare e al comune costa 2.500 euro al mese. Michele non ha ripreso a lavorare. È un senza tetto. Ogni giorno si deve rivolgere agli enti caritatevoli, largamente finanziati dalle amministrazioni, per avere un pasto caldo. Lucia paga un affitto di 400euro per una stanza. Ha smesso di danzare e deve lavorare come cameriera per mantenersi gli studi.
Per quanto più tragica questa seconda versione è la più verosimile.
Roma è oggi la città italiana con il maggior numero di case vuote. Nel 2009Legambiente ne registrava più di 245mila. Sono moltissimi gli stabili pubblici inutilizzati, ormai da tempo oggetto di svendita a privati. 40mila famiglie strangolate dall’emergenza abitativa. Gli sfratti, tramite la forza pubblica, sono all’ordine del giornoIn risposta a questi paradossi Roma è, ancora oggi, la città d’Europa col più alto numero di occupazioni: più di cinquanta edifici. Necessaria soluzione di emergenza alla mancanza di welfare, abitativo e sociale, per la quale l’amministrazione vanta un’assenza totale di risposte politiche.
Questi sono solo pochi dati, ma danno bene l’idea di una precisa realtà. Le case sfitte esistono perché Roma è stata oggetto di una forsennata speculazione edilizia sotto le giunte Rutelli, Veltroni e Alemanno, le quali hanno creato e sfruttato strumenti come gli “Accordi di programma”, i “Diritti Edificatori” e le “Compensazioni Urbanistiche”.
Per mezzo di questi si riesce ad andare in deroga al piano regolatore consentendo di rendere edificabili grandi porzioni di territorio in cambio della realizzazione di infrastrutture o opere di utilità sociale, a cui abilmente i costruttori riuscivano in toto o in parte a sottrarsi. Questa situazione ha portato al formarsi di quartieri periferici grandi quanto cittadine di provincia, sorti intorno a grossi centri commerciali, e privi di servizi, trasporti e altri luoghi di aggregazione. Nonostante il processo di gentrification abbia costretto molte persone a spostarsi dal centro in queste periferie, il numero delle abitazioni, nei nuovi insediamenti, rimaste invendute o sfitte è ancora altissimo.
Ciò accade perché i prezzi di questi stabili rimangono comunque sopravvalutati. Se l’intento fosse quello di venderli bisognerebbe far fronte alle leggi del mercato, quindi confrontarsi con un bene sito in un quartiere periferico sprovvisto di servizi e collegamenti e quindi di basso valore commerciale. È qui che ha luogo laspeculazione: mantenere alto un valore irreale, così da lasciare inalterato il proprio capitale. Verrebbe da chiedersi dove sia la convenienza con una tassazione sugli immobili così alta. Semplice. Ai costruttori, sull’invenduto e non locato, è concesso il privilegio dinon pagare tasse come l’Imu e spesso, per mezzo di contratti condominiali capestro, riescono a far gravare le spese degli appartamenti vuoti sugli altri condòmini.
Oltre questi casi, dal punto di vista privato, Roma è anche piena di stabili abbandonati di diverso genere (alcuni di valore storico) che vedono il continuo tentativo dei loro proprietari di snaturarli e riconvertirli in abitazioni. Anche questa operazione rientra abbondantemente nella famiglia delle speculazioni edilizie.
Il “Patrimonio Pubblico” invece, è per definizione un’insieme di beni patrimoniali che appartengono a tutti noi. È quell’insieme di “beni” che possiamo definire “comuni”. Si tratta di stabili di diverse tipologie: caserme e forti, teatri e sale cinematografiche, scuole e ospedali, magazzini, mercati, depositi, stabilimenti industriali e così via. Che utilità può avere uno stabile pubblico in disuso? Per chi lo gestisce – nella maggior parte dei casi il Comune di Roma – la soluzione è semplice: venderlo per fare cassa facilmente e andare a sanare il debito pubblico in previsione della morsa del pareggio di bilancio. Il patrimonio però non è infinito ed è intuitivo come questa soluzione conduca ad un vicolo cieco. In tutto ciò i municipi, la parte dell’amministrazione più radicata nel territorio, non dispongono di strumenti per l’utilizzo degli stabili in disuso.
6274602056_fc5364685a_bC’è però chi non la pensa così e che ormai da decenni lotta affinché il nostro patrimonio possa essere utilizzato per risolvere le istanze sociali di una città agonizzante e non sostenibile. Le occupazioni, siano esse a scopo abitativo o socio-culturale, sono l’attualealternativa alla mancanza di politiche di welfare per i ceti più svantaggiati e non solo. Sono il mondo parallelo che, benchè illegale, permette a migliaia di famiglie di avere un tetto sulla testa quando l’Amministrazione non ha politiche, risorse o addirittura le impiega in un sistema mafioso (come il recente scandalo di Mafia Capitale ha reso evidente).
Le occupazioni vengo spesso demonizzate in quanto vissute da furbi che vogliono una casa senza pagare un mutuo, con l’aggravante dei costi delle utenze che ricadono sui contribuenti.
Per sfatare questo mito si può pensare a due espressioni nate intorno agli anni ‘80 negli Stati Uniti – pionieri proprio di quel sistema liberista che ha portato, con la privatizzazione di beni e servizi, alla distruzione dello stato sociale. Lo “State-Help” per quanto riguarda le fasce più agiate e il “Self-Help” per quelle più deboli.
Per “State-Help” si intende l’aiuto che lo stato dà a chi già ha un suo potere economico. Ad esempio: gli incentivi statali che portano ad un abbassamento dei mutui danno sì un vantaggio ed un aiuto, ma sempre ad un ceto medio-alto. Se faccio parte della fascia debole, non ho avuto garanzie per prendere un mutuo prima e non le avrò neanche dopo l’aiuto dello stato. Rimango nella mia condizione.
Il “Self-Help” è invece il meccanismo che le fasce più deboli, impossibilitate ad accedere a beni e servizi, innescano al fine di creare un auto-sostentamento. Nel nostro caso, l’impossibilità di accedere ad un mutuo e la mancanza di aiuto dallo stato, mi fa trovare delle soluzioni alternative insieme ad altri nelle mie stesse condizioni per riconquistare un diritto.
Da questa base le esperienze di occupazione e autogestione hanno sperimentato e si sono evolute di pari passo all’aumento dei diritti negati. Dal concetto di diritto alla casa, si passa al diritto all’abitare e al diritto alla città. Dalla condivisione e il sacrificio nascono esperienze di auto-recupero e auto-costruzione, che hanno portato interi edifici dismessi a diventare delle vere e proprie abitazioni, in alcuni casi persino rispettando le norme tecniche. Senza parlare dei diversi tentativi che hanno seguito i canali istituzionali, come la presentazione di delibere che esprimono gli stessi concetti, ma scarsamente praticate.
Fermiamoci. Pensiamo ora per un solo istante di disporre di un edificio. Grande. Un “ex-qualcosa”. Che dei 2.500 euro al mese che spendiamo per far alloggiare una famiglia in un residence, ne venga utilizzato un decimo in acquisto di materiali edili.
Pensiamo per un minuto solamente di togliere, anche in minima parte, i finanziamenti agli enti caritatevoli per i senzatetto. Immaginiamo di investirli per integrare queste persone nel progetto che li porterà a costruirsi una casa. Le residenze temporanee agli ultimi due piani sono attraversate da studenti ed artisti. Al terzo piano è appena arrivata una famiglia siriana, hanno subito un naufragio. Ce lo raccontano. È tremendo. Mostriamo loro la sala condivisa al piano terra. È un laboratorio per i bambini che studiano e giocano insieme, ma all’occorrenza è un teatro. Non è un edificio. È un organismo vivente che muta e si contamina nelle sue parti.
Solo se ci sforziamo ancora di immaginare, la storia della nuova casa di Majid, del lavoro di Michele e del futuro di Lucia potrebbe essere una storia vera. Semplicemente potrebbe essere una storia comune.
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Pubblicato anche su 180gradi.org

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