giovedì 28 gennaio 2016

cosa significa famiglia tradizionale

Cosa significa famiglia tradizionale?

by JLC
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di Anna Foggia Gallucci*
L’allocuzione “famiglia tradizionale” è un ossimoro, dato che la tradizione (e poi quale tradizione? Di quale regione, Paese, nazione?), o meglio, le tradizioni raccontano di modelli estremamente variegati di famiglie che, nel tempo e nello spazio, hanno trovato nelle comunità propri spazi, particolari ragioni, determinate evoluzioni, specifici sensi.
Se oggi, ad esempio, operando una forzatura, si fa riferimento all’idealtipo (in quanto tale astratto) della famiglia “nucleare”, ridotta al suo nucleo essenziale con genitori e figli,fino a cento anni fa in Occidente prevaleva l’organizzazione familiare estesa, in cui risiedevano nella stessa dimora, o nei dintorni di essa, fratelli e sorelle del padre, della madre, cugini, nonni e anche affini, perché il legame di sangue aveva, in diversi contesti, rilevanza assai trascurabile. Inoltre, la diversificazione delle forme familiari in un passato storicamente e geograficamente non molto distante, era riconducibile a elementi quali l’origine cittadina o campagnola, la situazione patrimoniale, i mestieri e le professioni esercitate e altro ancora, e solo molto marginalmente alla scelta o all’amore.
Uno sguardo all’antichità ci conferma, pertanto, che il concetto di famiglia ha più a che fare con la cultura che con la natura: troviamo famiglie monogamiche, magari con previsione di concubinato a vantaggio del pater familias, ma anche poligamiche; scopriamo luoghi e tempi in cui nella famiglia si includevano anche quelli che noi consideriamo parenti alla lontana nonché i servitori; incontriamo pure popolazioni in cui la famiglia coincideva con la tribù di appartenenza. Gli studiosi, del resto distinguono tra gruppo domestico, famiglia biologica, famiglia nucleare, famiglia composta, grande famiglia e famiglia estesa.
Assodato così che l’aggettivo “tradizionale” pertiene ben poco a una formazione sociale storicamente e culturalmente connotata come la famiglia, si comprende come gli organizzatori e i sostenitori del family day (più o meno gli stessi di Stop gender, leggi Quella folla in piazza San Giovanni di Laura Fano, ndr) stiano, di fatto, promuovendo un modello specifico nel quale loro, e soltanto loro, identificano la soluzione ottimale di nucleo familiare, al di fuori del quale niente altro, sempre a parer loro, può essere ammesso né concesso.
Tale modello, tuttavia, è già stato artificiosamente proposto e imposto nel nostro Paese, tacendo e cassando da ogni narrazione tutti gli altri che la vita reale ha, comunque, sempre offerto; va benissimo, allora, l’operazione culturale che da più parti si sta portando avanti, non senza fatica, e che consiste nell’evidenziare la felice pluralità dei modelli familiari disvelando, nel contempo, i costi sociali, morali ed economici dell’imposizione di quella tipologia di famiglia che il costume reazionario e discriminatorio vorrebbe prescrivere definitivamente come famiglia per antonomasia.
Ancora una considerazione: se si unisce la lettura dei numeri di violenze e crimini consumati in contesti familiari alla consapevolezza che il frame culturale degli individui e dei gruppi costituisce un sistema integrato di elementi tra loro interdipendenti, si potrebbe insinuare il ragionevole dubbio sul vantaggio, in ordine ai risultati, di imporre unformat obbligato nella costituzione di quello che è il luogo di vita quotidiana ove si cresce affettivamente, emozionalmente, cognitivamente, socialmente.
I latori del modello unico di famiglia demonizzano ogni variazione sul tema in quanto elemento di disgregazione sociale mentre andrebbe rimarcato che la violenza sulle donne e la violenza assistita dai minori, definite dalla convenzione di Istanbul gravi violazioni dei diritti umani, si consumano proprio sul palcoscenico della cosiddetta famiglia tradizionale, quella dovrebbe, secondo loro, essere deputata a mantenere coesa la società.
Nella mia vita ho avuto solo una volta la famiglia composta da un padre e una madre biologici, sposati in chiesa, non per mia volontà giacché ci sono nata; il vincolo sacro non ha impedito che vi si consumasse violenza e si producesse infelicità, peraltro sotto gli occhi di tutti senza che nessuno sollevasse il problema, in virtù di una supposta “normalità”, dedotta dalla diffusione a tappeto di queste abitudini. È di fatto incontestabile che un numero sufficientemente rappresentativo di quelle che ci si ostina a definire “famiglia tradizionale” in Italia, oggi, rientrino nella casistica critica: in una famiglia su tre ha luogo violenza verbale, psicologica, economica, fisica o sessuale. Una violenza che si trasferisce per osmosi dall’imposizione stessa del modello familiare alle pratiche che al suo interno vi hanno luogo, con una ricorrenza tale da poterla pensare rientrante nella norma, per quanto ignobile possa essere.
Crescendo ho avuto la fortuna e le opportunità di elaborare e approfondire il senso di questi vissuti che mi accomunano a oltre un terzo della popolazione femminile italiana tra i sedici e i settant'anni, poi gli studi e le esperienze personali e professionali mi hanno confermato che violenza, abusi e soprusi costituiscono non già dei raptus, come vorrebbero i media di bassa lega, bensì un costume mentale che si indossa oppure no, ma dal momento in cui lo si indossa non se ne discriminano i destinatari: come si dice in gergo, “‘ndo cojo, cojo”, e allora via libera ad aggressività, prepotenze e prevaricazioni in famiglia, a scuola, nei luoghi di lavoro e in ogni contesto di vita (leggi anche Ma quale gelosia, raptus e tragedia… di Maria G. Di Rienzo, ndr).
Se il fatto storico e sociologico indiscutibile è che la famiglia costituisce il luogo privilegiato della costruzione della realtà, una politica seria dovrebbe promuovere la possibilità per le persone di crearsi il tipo di famiglia nella quale più sentano di poter sviluppare il proprio potenziale umano, senza che siano messi mai in discussione pari dignità, opportunità, diritti e libertà, in aderenza alla nostra carta costituzionale che pone lo Stato al servizio della persona in quanto tale e così come sancito nella Dichiarazione universale dei diritti umani.

* sociologa e insegnante

DA LEGGERE
Un paio di cose sulle lezioni di antropologia di Angelo Bagnasco
«Dobbiamo abbattere quella che chiamerei l’ideologia cattolica». «La difesa della famiglia cristiana nasconde la volontà di conservare un certo tipo di società e un certo tipo di sistema di rapporti». «Non esiste la “famiglia cristiana”, essa è un falso valore», «Il Vangelo non dà nessun esempio di famiglia precisa. La sacra famiglia è un’invenzione posteriore, perché la famiglia di Nazareth non è un modello di famiglia», «La parola del Vangelo non si presta a diventare – guai del se lo facessimo – un fondamento per nuovi ordinamenti giuridici». A scriverlo non è un gruppo di antieclericali ma Ernesto Balducci, scrittore, pensatore e sacerdote, ai tempi del referendum sul divorzio. In questa splendida lezione di storia, Balducci spiega come «la famiglia cristiana, se noi la conserviamo come prodotto storico ereditario, nasconde invece in sé particolari pregiudizi, difformazioni, rapporti sociali legati allo sfruttamento che sono tutti da rifiutare», alludendo in particolare alla subordinazione della donna. Insomma, la famiglia resta una creazione continua, abbiamo bisogno di battaglie per libertà, per questo occorre mettere in discussione prima di tutto il concetto del diritto naturale, «con cui si sono voluti rendere eterni e immutabili alcuni rapporti sociali»

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